L’uomo muore perché è immortale (G. Marino)
La Morte «Rito di Iniziazione»
L’uomo, non appena si affaccia sulla soglia della vita, inizia la sua
partita a scacchi con la Morte. La Signora con la falce muove i suoi pezzi
con grande maestria. Così incomincia l’atavica sfida che si combatte sulla
scacchiera cosmica; un immenso insieme di figure geometriche: quadrati e
losanghe, a colori alternati, bianco e nero, che rappresentano le forze
contrarie che si confrontano nella lotta per la vita, sia nella costituzione
della persona, sia dell’universo. L’esito della partita è scontato: l’uomo
subirà scacco matto.
FULVIO REGAZZONI (Revista massonica svizzera novembre 2003)
Tutti noi abbiamo dato vita da tempo a questa sfida. La Morte ci concede
il privilegio della prima mossa. Il riverente terrore che le permettiamo di
incuterci, ci vede irrimediabilmente perdenti ancor prima che la partita si
concluda. La parola morte, la fonetica stessa di quel sostantivo, ci induce
a prostrarci davanti a lei, ad arrenderci ancor prima che il suo alito ci
abbia sfiorati. Il pensiero della morte ha il potere di annichilirci, di
raggelarci. In quelle case dove la nera parca ha falciato il fieno, i suoni
sembrano attutiti, soffocati. Tutto è sommesso. L’olfatto percepisce l’odore
acre del suo passaggio. Ai bimbi è vietato giocare, sorridere. Gli adulti
hanno gli occhi infossati dal dolore, arrossati dal pianto. Tutto è gelo,
cambiano i sapori delle pietanze: al palato ricordano il profumo dei
crisantemi, l’odore della terra fradicia appena smossa. Terra nera, che sa
di dolciastro, ammucchiata ai lati di una fossa ancora vuota. Uno spazio
angusto che presto sarà colmato. Anche i colori dei fiori più belli, in quei
giorni, sembrano spenti. Il Sole non riscalda i cuori di coloro che la morte
ha privato degli affetti più cari.
Scheletro e falce
Vita e Morte camminano fianco a fianco. Ci accompagnano, mano nella mano,
sulla sottile linea del destino. Alla vita ci si affida con totale fiducia,
certi della promessa del domani. Alla morte questa fiducia viene negata. Il
suo «domani », il dopo, è incerto. Siamo portati a considerare la promessa
di una esistenza ultraterrena, da viversi in una dimensione spirituale,
troppo labile per affidarci serenamente alla morte. Il «fiume» che ci
apprestiamo ad attraversare è troppo impetuoso, l’altra sponda è nascosta
dalle brume, l’ignoto ci terrorizza. Ma se avessimo la certezza che su
quella sponda potremo proseguire nel nostro cammino, la morte non ci farebbe
più paura.
Nell’iconografia, la Morte, è stata rappresentata come figura
implacabile, dall’aspetto diabolico, paralizzante. Nell’infanzia ebbi modo
di farmene un’immagine ben connotata. L’avevo vista raffigurata in un
affresco: uno scheletro che cavalcava con fierezza uno spettrale destriero
nero. In una mano, la Morte brandiva la falce, nell’altra una clessidra. Lo
sguardo, seppur spento nelle vuote occhiaie, aveva una strana espressione:
la mascella, semiaperta, scopriva una dentatura tormentata, giallastra. La
Morte sogghignava. Sullo sfondo, le torri in fiamme di un castello. Era
passata seminando la disperazione. La stessa che provai quando si prese mio
padre. La Morte era entrata nel mio immaginario: un vento gelido, un
sussurro che udivo nelle notti insonni, quando mi nascondevo sotto le coltri
per non udire scalpitare quel cavallo nero. Poi si manifestò ancora. Lo
faceva continuamente. E il rito si ripeteva: la visita al defunto, le stesse
lugubri atmosfere, gli stessi odori, lo stesso gelo che avvolgeva tutto e
tutti. Con l’adolescenza quella tetra immagine andò sbiadendo. A quell’età
la Morte non ci spaventava. Eppure non mancavano messi da falciare. Noi
sognavamo la vita e il nostro domani era tinto a colori sgargianti. Quando
la morte si manifestava, era un fatto che riguardava gli altri. A volte lo
faceva in maniera plateale. Si abbatteva all’improvviso su uomini e cose.
Ciò avveniva in paesi lontani. A volte la incrociavamo sulle strade, durante
le nostre scorribande in automobile. Lei era già passata. Unica traccia: le
lamiere contorte di una vettura accartocciata. Come in un messaggio
subliminale, lei ci appariva per una frazione di secondo, forse a ricordarci
che non si era certamente dimenticata di noi e che non ce lo dovevamo
scordare. Ma la linfa che scorreva come fuoco nelle nostre giovani vene
aveva il sopravvento. Quell’immagine si dissolveva. Ci si rifiutava di
pensarci. Rifiutavamo il concetto stesso di morte, fine di tutte le cose. Ci
sentivamo eterni, immuni, al riparo da quel possibile incontro. Ci
apprestavamo a far parte di una società che pronunzia la parola morte
sottovoce, evitando il più possibile di parlarne.
Ignorare la morte
La Morte ci cammina a fianco e facciamo finta di ignorarla. Giornali,
radio, televisione ci rammentano quotidianamente questa sua presenza. Da
tempo immemorabile ci si batte per sconfiggerla. E’ una battaglia che
combattiamo con le armi che ci vengono messe a disposizione dalla scienza,
dalle nuove tecnologie. Curiamo in maniera quasi maniacale la nostra salute.
Siamo costantemente alla ricerca dell’elisir di lunga vita. Lo scopo è
quello di rimandare il più tardi possibile l’incontro con la vecchia
Signora, con l’intento di escluderlo in maniera definitiva, tanto ci
terrorizza. E allora evitiamo di parlarne, partecipando solo marginalmente
al lutto altrui. A volte, disertando le esequie, ci illudiamo di poter
esorcizzare la morte. Meno se ne parla, meglio è. Un’improvvisa dipartita,
un lutto che colpisce amici, conoscenti, è qualcosa che cerchiamo
immediatamente di cancellare dalla nostra mente. In questa società non c’è
posto per la «cultura della Morte». Dice bene il Bianconi: «La civiltà della
fretta, della tecnologia avanzata, del computer, teme la Morte in maniera
incredibile. Paura per questo momento che tutti vogliamo il più lontano
possibile c’è sempre stata, da Adamo in poi. Ma adesso c’è il terrore. Una
volta, nemmeno troppi decenni fa, il tempo scandiva meglio il ritmo delle
stagioni e anche la Morte era un’immagine meno spettrale. Oggi, guai! È
subito incubo. Si sta rapidamente allentando, dove pure non è già sparito
del tutto, quel senso di compartecipazione, di solidarietà e condivisione
che un tempo univa tutte le contrade colpite da un lutto, l’intero paese e
anche una valle.»
Oggi si muore in maniera asettica. Il trapasso, sempre più spesso,
avviene fuori dalle mura domestiche, a volte senza il conforto dei propri
familiari. La morte è un’ospite che può renderci visita all’improvviso. Per
questo le si chiede la più assoluta discrezione. A volte si muore senza che
nessuno se ne accorga, nemmeno coloro che abitano alla porta accanto. Appena
scoperto il decesso bisogna cancellarne ogni traccia, come se la morte fosse
un fatto di cui vergognarsi, un esecrabile accadimento che bisogna
nascondere ad ogni costo; un fatto innaturale.
Proiezione verso la Luce
La morte è innaturale solo se la si considera la fine assoluta di tutte
le cose, di ciò che è positivo, vivo: un essere umano, un animale, una
pianta, una relazione, un periodo, un’epoca. Noi consideriamo la morte come
il simbolo distruttore dell’esistenza. Sforziamoci di pensarla invece come
vettore capace di proiettarci in un’altra dimensione, dove, abbandonato
l’involucro corporale, lo spirito possa librarsi libero e vivere
un’esistenza forse migliore di quella che ci siamo lasciati alle spalle.
Dovremmo considerare la vita terrena come il preludio di un grande viaggio,
una lunga navigazione che ci permetterà di uscire dalle dimensioni cosmiche,
alla ricerca dell’immortalità, isola in un mare di Luce.
La Morte è detta «la Regina del terrore». Così la definisce Dion Fortune
nel suo saggio «Attraverso i cancelli della Morte». «In essa - scrive
l’autrice - consiste la punizione suprema con cui la legge punisce chi viola
le sue regole. Cos’è dunque che rende un processo naturale così terribile? È
forse la paura del dolore? No, non è questo, perché la scienza dispone di
sostanze in grado di alleviare le nostre sofferenze. La maggior parte dei
moribondi è serena nel momento del trapasso e solo pochi lo affrontano
lottando. Cosa temiamo dunque nella morte perché essa sia per noi causa di
dolore e paura? In primo luogo temiamo l’Ignoto. Come seconda cosa
paventiamo la separazione dalle persone che amiamo.»
Se la nostra civiltà considera ancora la morte come un tabù, nel passato,
l’approccio con essa era di tutt’altra natura. A testimonianza di ciò, i
testi che ci sono stati tramandati: il Libro dei morti egiziano e quello
tibetano. Il primo precede di oltre tremila anni il Bardo Thödol. (Bardo
significa: «post morte» o «stato intermedio dopo la morte». Thödol:
«liberazione mediante lo studio, ascolto, meditazione».)
«Fra i popoli dell’antichità - scrive Gregorio Kolpaktchy - nessuno ha
manifestato per il mistero della morte un interesse così appassionato e così
esclusivo come il popolo egiziano. Assorto nella ricerca della soluzione di
questo assillante quesito, fin dagli albori della sua civilizzazione,
l’antico Egitto organizzò tutta la sua vita politica, sociale e religiosa in
funzione di questo problema; possedendo una tradizione esoterica risalente
ad epoca immemorabile e disponendo di numerosi e ben organizzati centri
iniziatici, credette poter dominare la stessa morte».
Per l’antico egizio la morte non era l’ultima tappa, la fine del viaggio,
ma bensì la continuazione dell’essere intelligente. La teogonia egizia ha
fatto della morte il tema stesso della vita. Il Libro tibetano dei morti ha
origine dalle comunità buddiste grazie all’esperienza di alcuni Lama che in
maniera diversa dagli Yogi indiani, hanno saputo plasmare la loro mente
portandola ad uno stato di coscienza atto a sfatare, cancellandole, tutte le
illusioni del post morte. Questo testo prepara i vivi al dopo morte,
razionalizzandone il concetto. I tibetani definiscono «stati» di post morte
anche altri momenti dell’uomo: la concezione, il sogno, e lo stato di
profonda meditazione. «Dimmi quali sono i tuoi pensieri e ti dirò quali
mostri, luci o tenebre vedrai e incontrerai nel post morte». L’anima, dopo
il passaggio, ritrova la somma di tutti i pensieri espressi durante la vita.
«Secondo il Bardo Thödol, - scrive Guglielmo Marino, autore del volume
«L’uomo muore perché è immortale» - ogni immagine che il defunto incontra
nel suo post morte è frutto di allucinazione della sua stessa mente, cioè un
inganno della propria mente. L’allucinazione consiste nel fatto che il
defunto, pur essendo già morto, persiste a credersi ancora in vita, non
riuscendo a rendersi conto del suo trapasso in un altra dimensione». «La
morte - sostengono i mistici - ha un valore psicologico: libera le forze
oscure, negative e regressive, dematerializza e libera le forze ascensionali
dello spirito. Se la Morte è figlia della notte e sorella del sonno,
possiede - come sua madre e suo fratello - il potere di rigenerare»
Nell’Antico Egitto era profondamente radicata la convinzione che l’uomo,
nascendo sulla Terra, moriva per il mondo dell’Aldilà. Le potenzialità
sovrumane di cui era dotato, subivano una specie di battuta d’arresto. Per
rigenerarsi era necessaria una nuova nascita, che poteva avvenire solo con
la morte terrestre. Ciò equivaleva alla rinascita dello spirito, al
ringiovanimento dell’Ego profondo. Il defunto diveniva allora un nuovo nato
nella «piena Luce del Giorno». Per l’iniziato egiziano la morte fisica non
era altro che la logica metamorfosi della coscienza. L’anima varcava la
soglia e iniziava il cammino dell’evoluzione per penetrare nei Mondi
dell’Aldilà. Nel mito di Osiride gli egiziani vedevano il pegno di una vita
eterna, aldilà della morte. Credevano che l’uomo sarebbe vissuto eternamente
nell’altro mondo se i suoi cari avessero fatto per il suo cadavere quello
che gli dèi avevano fatto per il cadavere di Osiride.
Rito d’iniziazione
Noi, seppur inconsciamente, facciamo le stesse cose, con analoghi
intenti. Ricomponiamo i nostri morti. Celebriamo le esequie con un riguardo
particolare, tenendo sempre ben presenti le abitudini, i gusti, le
preferenze di coloro che ci hanno lasciati. Da qualche parte, anche se
celata negli angoli più profondi del nostro subcosciente, non c’è forse la
speranza che tutto ciò serva a facilitare «il passaggio», a favorire la
«metamorfosi» di quel corpo che stiamo per seppellire o affidare alle
fiamme? E non ci siamo mai domandati, in quelle circostanze, se è mai
possibile che tutto finisca li, sotto qualche metro di terra o in una
manciata di cenere?
Per poterci rigenerare, dobbiamo compiere il «rito di iniziazione». Con
la morte ci si libera di tutto ciò che è terreno, comprese le pene e le
preoccupazioni che la vita terrena comporta. Abbandonato questo stato di
«imperfezione», s’inizia un processo di rinnovamento, al quale possiamo
accedere solo se iniziati. Dobbiamo permettere che la metamorfosi si compia.
L’iniziazione consiste nella accettazione della morte come «rito di
passaggio». Dobbiamo abbandonare l’involucro (vita profana) per accedere ad
una dimensione totale di Luce; dobbiamo levarci la benda. Facciamo nostre le
parole di Wirth: «Il profano deve morire per rinascere alla vita superiore.»
Nel suo racconto «Rivelazione magnetica», E. A. Poe chiede al suo
immaginario interlocutore, il signor Vankirk: «l’uomo potrà mai ripudiare il
corpo?» E Vankirk risponde: «Vi sono due corpi: quello rudimentale e quello
completo, corrispondenti alle due condizioni del bruco e della farfalla. Ciò
che noi chiamiamo morte non è che la dolorosa metamorfosi. La nostra
incarnazione presente è progressiva, preparatoria, temporanea.
L’incarnazione futura è perfezionata, ultima, immortale. La vita ultima è lo
scopo supremo.» Questo passaggio tratto dai «Racconti straordinari» dello
scrittore statunitense, ci porta di riflesso al simbolismo della crisalide e
della trasformazione. Ci torna quindi naturale accostarlo alla camera
segreta, al gabinetto di riflessione, da dove s’inizia la metamorfosi che
dal buio ci porta alla Luce. La crisalide non è solamente l’involucro (il
corpo) protettore, ma bensì uno stato transitorio fra due momenti del
divenire. Essa comporta la rinunzia del passato (la materia) per la
conquista di uno nuovo stato (lo spirito).
Simbologie
La Morte ha i suoi emissari: sono i simboli e i colori che la
rappresentano. La falce, che appare nelle mani dello scheletro: strumento
inesorabile che ci rende tutti uguali. La clessidra, che ci ricorda
l’inesorabile trascorrere del tempo e che soprattutto non è eterno. Il
colore nero, per noi occidentali segno inequivocabile di lutti e sciagure.
Nella XIII lama questi simboli e colori assumono tutt’altro aspetto e sono
estremamente significativi, eloquenti: rappresentano la morte come passaggio
obbligato per rinascere a nuova vita. In questo caso la morte va
interpretata come «iniziatica ». Essa falcia il paesaggio di una realtà che
è solo apparente, falsata. La lama della falce è rossa, il paesaggio è tinto
di nero. Quindi la falce come forza vitale, la vittima il nulla. L’arcano
XIII prepara alla vita reale. Il nero e il rosso. Il primo, capace di
assorbire tutte le radiazioni, non restituisce la luce. Evoca il caos, il
cielo notturno, le tenebre terrestri della notte, il male, la tristezza le
angosce, le paure, l’incoscienza, il nulla (realtà solo apparente). Il rosso
(la falce) è il colore del fuoco e del sangue e da molte civiltà e popoli è
stato considerato il principio della vita. La morte iniziatica come
prefigurazione della morte fisica, dev’essere intesa come rituale per
accedere a una nuova vita. Citiamo San Paolo: (I Corinzi, Il corpo dei
risorti 36, 37) «Nessun seme rivive se prima non muore. E il seme che metti
in terra, quello di grano o di qualche altra pianta, è soltanto un seme
nudo, non la pianta che nascerà. Dio gli darà poi la forma che vuole, e a
ogni seme corrisponderà una pianta». Prima della morte reale, grazie alla
morte iniziatica che San Paolo ci invita costantemente a ripetere, l’uomo
costruisce il suo corpo glorioso penetrando - tramite la grazia e pur
continuando a vivere nel mondo profano - nell’eternità. L’immortalità non
segue la morte, non appartiene alla condizione post mortem, bensì si
costruisce ed è il frutto della morte iniziatica. Ancora dalla prima lettera
ai Corinzi (45, 46 e 50): «Così dice la Bibbia: il primo uomo è stato fatto
creatura vivente, ma l’ultimo Adamo, Cristo, è stato fatto Spirito che dà
vita. Ma non viene prima ciò che è spirituale, prima viene ciò che è
materiale. Quel che è spirituale viene dopo. Ecco, fratelli, quel che voglio
dire: il nostro corpo fatto di carne e di sangue non può far parte del regno
di Dio, e quel che muore non può partecipare all’immortalità.»
Iconograficamente, la Morte, è da sempre stata personificata da uno
scheletro. In alchimia esso è il simbolo del nero, della decomposizione. Ma
colore e degenerazione della materia sono il principio della trasmutazione.
In questo caso lo scheletro non rappresenta più una morte statica, uno stato
irreversibile, ma una morte che diventa strumento per una nuova vita. Una
morte mistica, iniziatica che simbolizza la putrefazione della materia,
passo obbligato per accedere alla rinascita. Quelle che vengono definite
«religioni misteriche», testimoniano di questa speranza, la rinascita. Ed
infatti, i riti di iniziazione ai grandi misteri (Elèusi, Cibele, Mitra)
erano, senza dubbio, simbolo di resurrezione di un ritorno alla vita attesa
dagli iniziati. «La Morte, così poetica perché mette capo alle cose
immortali, così misteriosa a motivo del suo silenzio» (Collin de Plancy
«Dizionario Infernale»).
Nel vasto repertorio del simbolismo, non mancano di certo segni che ci
inducono a considerare la Morte «poetica» e «iniziatrice» di una nuova
esistenza. La spirale, ad esempio, che ritroviamo riprodotta in tutte le
culture, è uno dei simboli indicanti il viaggio dell’anima dopo la morte. In
America, in Asia e Polinesia, le civiltà primitive vedevano rappresentate
nella spirale le varie fasi del viaggio che l’anima del defunto doveva
compiere verso la destinazione finale. I Germani la rappresentavano
circondante l’occhio di un cavallo attaccato al carro del Sole. Il
significato non dovrebbe meravigliarci: la sorgente della Luce o se
preferite - parafrasando E. A. Poe - «lo scopo supremo».
Speranza universale
Una costante, quella della Luce, che per noi Massoni dev’essere motivo di
profonda riflessione. Se è vero che nella nostra simbologia la Luce ha
un’importanza essenziale, proprio perché la identifichiamo con lo spirito,
con l’intelletto, non dobbiamo dimenticarci che la Luce, per noi, significa
anche rinascita, vita e salvezza.
San Bonaventura (Bagnoregio Vt., 1274 Vescovo di Albano «Dott. Serafico»)
definiva la Luce la «forma sostanziale di ogni corpo». E S. Giovanni: «Egli
era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella Luce risplende nelle
tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.»
Un canto attribuito ad Amenofi IV, sposo di Nefertiti, recita così:
«Lodiamo il Signore Uno, padre della cosa Una e amiamo l’acqua che ci
disseta e chiamiamo sorella la belva della notte, chiamiamo fratello il
fuoco che distrugge e amica sorella Morte che ci riporta alla Luce del
Signore padre della cosa Una.»
Possiamo sopravvivere alla morte fisica? Questa è la domanda che
probabilmente assilla l’uomo da sempre, fin dalla preistoria. Da quanto
lasciano supporre i riti di quelle popolazioni primitive, possiamo dedurre
che la vita dopo la morte doveva essere interpretata come una continuazione
della vita terrena. Con le forme primitive di religione sono comparse le
divinità dei morti «i guardiani dell’Aldilà», ai quali era necessario
versare un tributo, affinché il passaggio si svolgesse senza tribolazioni,
sempre che il trapassato si dimostrasse meritevole di tanto riguardo. Ci
troviamo evidentemente di fronte ad una prova di giudizio prima di
affrontare un’altra esistenza. E in questo caso i confronti con altre
civiltà, con altre religioni si sprecano: come non constatare l’universalità
di questa speranza di «rinascita», indipendentemente dal nostro credo, dalla
nostra religione? Questa speranza si è sempre manifestata nella maggioranza
degli esseri umani. La specie umana è portata a credere in un possibile
aldilà, dando per scontato che alcuni aspetti della personalità sopravvivano
alla morte del corpo. In Oriente vige la convinzione che il nocciolo della
personalità sopravviva alla morte del corpo, per poi ritornare su questo
mondo. Entrando in un altro corpo, il nucleo da vita ad un processo di
rinascita, di reincarnazione; musulmani e cristiani credono a forme diverse
di esistenza extraterrena.
L’immortalità
Contrariamente agli spiritualisti, i seguaci della filosofia
materialistica negano che un qualunque aspetto della coscienza personale
possa sopravvivere alla morte fisica. La loro tesi si basa sulla teoria che
la mente sia soltanto una sorta di ombra dell’attività cerebrale. Secondo
loro ogni attività mentale cesserebbe quando il cervello smette di
esercitare la sua funzione. Ma quale cervello? Quello fisico-formale o
quello eterico?
C’è un dialogo, tratto dalla teoria platonica dell’immortalità, in cui
vengono descritti gli ultimi istanti della vita di Socrate. «In questo
dialogo scaturisce l’ideale platonico di un uomo - scrive Russel - che è
insieme saggio e buono al più alto grado, e che non ha alcuna paura della
morte.» L’imperturbabilità di Socrate negli ultimi momenti della sua vita è
indubbiamente legata alla sua fede nell’immortalità. E a proposito degli
impedimenti del corpo, e delle conseguenze che a volte ne derivano, Socrate
afferma: «Che cos’è la purificazione se non il separare l’anima dal corpo?»
Se l’uomo vivesse in simbiosi con la natura, se osservasse i miracoli
quotidiani che essa sa produrre e se soprattutto si sentisse parte
integrante di questo processo, i suoi dubbi sulla possibilità di una
«rinascita» aldilà della morte fisica, potrebbero essere fugati.
Il seme che muore e si moltiplica, il suo simbolismo che prevarica i
ritmi stessi della vegetazione, non sono forse un esempio dell’alternarsi
dei ritmi di vita e di morte? I riti di iniziazione non hanno forse lo scopo
di liberare l’anima da questa alternanza e di fissarla nella luce? Sofocle
chiama tre volte beati coloro che in Elèusi hanno raggiunto e contemplato il
télos: «Soltanto per loro - afferma - c’è vita nella morte.»
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