… non vacua ripetizione di gesti e di formule prescritte …
Rito e ritualità
ANTONIO PANAINO (Revista massonica svizzera aprile 2003)
Una concezione purtroppo corrente nella società contemporanea, diffusa
non solo nel mondo profano, tende a considerare tutto ciò che appaia come
«rito» o «rituale» alla stregua di un armamentario ideale superato, una
ferraglia da rottamarsi il più velocemente possibile.
Il ragionamento sotteso a tale sotto-cultura ha una visione del rito
esclusivamente «esteriore », ossia ne enfatizza la ripetitività,
l'immobilismo, l'arcaicità, tutte categorie intese come contrapposte alla
ragione, al dinamismo, alla modernità. Non si mancherà di notare peraltro
che una sorta di svalutazione dell'apparato rituale è presente anche in
alcune manifestazioni dominanti del Cristianesimo, ove la dimensione
simbolica della sacramentalità dell'officio liturgico è stata fortemente
ridimensionata, non sempre con piena coscienza o altrimenti suscitando
estremizzazioni tanto eclatanti quanto circoscritte. Di pari passo, con tale
atteggiamento anti-rituale, si registra, segnatamente in ambiente laico, uno
sconfortante senso di estraneità di fronte a tutte le occasioni che con la
ritualità sono connesse; il rito, anche e soprattutto nelle sue forme
civili, istituzionali, militari, accademiche e sportive, viene lasciato
«degenerare» proprio come si trattasse di una noiosa formalità. Si tratta
insomma di un impiccio di cui bisogna sbarazzarsi nel modo più solerte, con
conseguenze che oscillano tra il ridicolo e la stupidità. Anzi, possiamo
dire che nella nostra società ogni seria manifestazione rituale appare
sempre più di difficile comprensione, soprattutto se non inquadrata in un
ambito espressamente confessionale e pertanto ben circoscritto, e anche in
questo caso con qualche problema.
Purtroppo questi condizionamenti non possono essere presi alla leggera
all'interno di una comunione come quella massonica, ove la ritualità
costituisce un momento senza dubbi centrale, sia sul piano esoterico e
formativo, oltremodo significativo del percorso massonico. Questo breve
articolo vuole quindi offrire soltanto uno stimolo, al fine di focalizzare e
chiarificare un problema sotto molti aspetti nodale.
Etimologia e semantica
In primo luogo mi sembra utile tentare una ridefinizione di «rito» in
quanto tale (e pertanto a prescindere dai singoli «riti» che sono accolti
nell'ambito del G.O.I.), partendo da una riflessione in chiave etimologica.
Il termine latino ritus, da cui l'italiano rito, ha una storia molto
complessa; esso, infatti, deriva in ultima istanza da un'antichissima radice
indoeuropea ar, che, mediante una serie di diverse suffissazioni, sta alla
base di una famiglia semantica estremamente ricca, costituita per esempio in
latino da ars, ar-ti-s «arte, abilità », ar-tus «articolazione», in greco da
arthmos «legame, unione», ar-thron «giuntura, articolazione, membro»,
arithmos «numero», ma anche dai verbi ar-ar-isko «adatto, armonizzo» e
artuno «adatto». Tale radice indoeuropea ha trovato poi nelle lingue
indoiraniche, come il sanscrito - la lingua dei Veda - , e nell'avestico,
quella dei testi più antichi attribuiti a Zarathustra a alla sua cerchia, ma
anche nell'antico persiano, lingua dei sovrani achemenidi Ciro, Cambise,
Dario, Serse, ecc., una serie di sviluppi di estremo interesse: infatti, sia
nei Veda sai nell'Avesta, il concetto di «ordine», di «armonia cosmica» è
stato rispettivamente rappresentato mediante un tema nominale, che in
sanscrito appare come ri-ta-e in avestico come asha- (da ar-ta-), a cui si
aggiungerà anche l'antico persiano arta-, che nelle iscrizioni dei sovrani
achemenidi ha assunto anche un significato più connotato sul piano politico.
A questa categoria fu opposta dualisticamente quella della «menzogna » o del
«disordine cosmico», espressa dal sanscrito druh-, dall'avestico druj- e
dall'antico persiano drauga-. Inoltre, con una suffissazione diversa, il
sanscrito ri-tu- e l'avestico ra-tu- vennero a designare «l'ordine
stagionale », un «tempo fissato», e quindi più in generale la «regola», la
«norma» (si confronti a questo punto anche il gr. ar-tus «sistema,
ordinamento»). Non stupirà quindi più di tanto notare che il latino ritus,
dal quale siamo partiti, abbia avuto alle sue spalle una pregnanza e un
significato ben articolato, che, al di là delle ben note accezioni di
«cerimonia, consuetudine, modo, costume tradizionale», si estrinseca come
una «ordinanza», nel senso di un'armonizzazione ordinata, di una sorta di
legame tra tutte le sue parti costitutive.
Il senso iniziatico
Se il lettore avrà benevolmente perdonato questa prima parte, forse un
po' dotta e pedante, avrà altresì notato quanto vi sia di profondo alle
spalle di un termine quale rito, nonché del concetto stesso di ritualità,
che da esso inevitabilmente scaturisce. Se ci si limitasse però a
quest'aspetto, avremmo solo posto un problema di ordine culturale, mentre lo
scopo del presente contributo è differente e meno profano. Una società
iniziatica non può prescindere dal rito (inteso come già detto in termini di
«ritualità applicata» e non contrapposto all'Ordine dei primi tre gradi
della Massoneria azzurra), in quanto strumento di ordinamento e di
armonizzazione dell'Officina e dei singoli Muratori. Il rituale è quindi un
atto comune e individuale ad un tempo; mette in gioco il singolo Fratello e
la comunità massonica a cui appartiene, la quale, a sua volta, è chiamata
nella sua totalità, attraverso l'applicazione di una Tradizione simbolica, a
stimolare in ciascun Iniziato un percorso interiore. «Lavorare» male sul
piano rituale, offrire un esempio vietato così come vietato intrattenersi
religione, massonici, ancora assumere debole sul piano dell'ortoprassi e
della sua conoscenza significa, quindi, danneggiare sia il percorso comune
sia quello individuale, giacché la Massoneria non offre al recipiendario e
poi all'Iniziato un «credo», ma un'occasione profonda per misurarsi con se
stesso, mediante il confronto con altri uomini che accettano una comunanza
di regole e landmarks fondamentali; tale comunione, per quanto si esprima
con l'ausilio di un linguaggio simbolico senza dubbio antidogmatico, non è
però certamente improvvisata e casuale. Aprire le porte ad una sorta di
riduzionismo formalistico del rito e della ritualità, come se si trattasse
di anticaglie, secondo una certa vulgata profana, significherebbe devastare
alla radice l'esperienza massonica e la sua centralità iniziatica per farne
invece un club più o meno ristretto, ma senza un centro, senza un ordine
profondo.
Uguaglianza
Bisogna considerare che il rituale, con le regole e i limiti che esso
impone, è anche strumento di eguaglianza ferrea; esso infatti impedisce che
i ruoli sociali profani si affermino all'interno del Tempio, giacché
l'apprendista – qualsiasi sia la sua cultura e importanza – tace e ascolta
(senza che però gli sia vietato arrovellarsi nel suo scranno a
settentrione), così come ai compagni e maestri è comunque vietato
intrattenersi in questioni di politica e di religione, che porterebbero
«fuori squadra» i lavori massonici, né è loro concesso scadere in dibattiti
o ancora assumere atteggiamenti scomposti e intolleranti. Tutti, in ogni
caso, sono soggetti all'autorità/autorevolezza del Maestro Venerabile, che
ha il potere/ dovere di armonizzare architettonicamente i lavori e garantire
il rito nel senso profondo di atto conformante la parte al tutto. Il senso
profondo della ritualità, delle garanzie che offre, nei limiti che al
contempo pone, sono tutti aspetti ignoti alla vita profana e alle esperienze
che essa può proporre. Non si può quindi ignorare che questo aspetto
dell'esperienza massonica costituisce per molti versi un unicum nella vita
attuale e come tale esso deve, nelle forme concesse, essere fatto conoscere
al di fuori della comunione massonica. Di questa ricchezza enorme, peraltro,
i Fratelli devono essere consci, in quanto si tratta di una forza
eccezionale, protesa sia verso l'interno sia verso l'esterno.
Edificare il Tempio interiore
Ci soffermeremo ora sul fatto che il rituale di costruzione del Tempio,
che è anche metafora dell'ordinamento di un «Tempio interiore», a guisa di
pietra che si squadra sempre più perfettamente, fuoriesce dal tempo normale,
dal «quotidiano ». Tra l'apertura e la chiusura dei lavori, tra mezzogiorno
e mezzanotte, un tempo «altro» scandisce il lavoro massonico, un tempo che è
circoscritto e separato da quello dell'esperienza profana. Tale «esperienza»
– giacché di esperienza si tratta, in quanto il rituale non è semplicemente
spiegabile, ma deve essere attualizzato e vissuto direttamente (di qui
almeno una parte del segreto massonico) – si articola e si sviluppa in un
«metatempo», in una sorta di dimensione «diversa », alla quale si accede per
gradi sotto la volta stellata del Tempio, in un luogo che simbolicamente
trascende la sua apparente e contingente esteriorità, ma si pone come centro
o asse del mondo. L'accensione del testimone e la squadratura del Tempio,
come una sorta di lustratio o di pradakhinâ, circoscrivono uno spazio che
verrà in breve tempo catapultato in una dimensione temporale nuova, in una
comunione che, nella separazione netta dalla vita e dal tempo profano, si
pone come una sfida interiore ad un'ascesa a cui tutti i Muratori devono
contribuire. Onestamente non sempre ciò riesce, ma quando tutto è stato
veramente «giusto e perfetto», l’autocoscienza di aver partecipato ad
un'esperienza, ove il rito non è stato vacua ripetizione di gesti e di
formule prescritte, ma armonizzazione di una molteplicità di coscienze,
segna fortemente l'Iniziato e gli elargisce una nuova profondità capace di
aprire, anche in chi pensava di già aver scoperto tutto, nuove possibilità
di ricerca interiore.
In una società dell'immagine, capace di soppesare con interesse solo ciò
che «rende», il rito, inteso come strumento vitale di un percorso umano,
etico e intellettuale, è indubbiamente una sfida e una provocazione. Per
tutti coloro che a priori odiano la Massoneria, ciò appare come una sorta di
mostruosità difficile da deglutire, giacché una tale dimensione spirituale
non è neanche lontanamente supposta presso una setta di adoratori di
«Bafometto» o una consorteria di «intriganti affaristi». D'altro canto,
proprio perché non siamo né una cosa né l'altra, non possiamo che lavorare
ritualmente la pietra grezza e ricordare, dentro e fuori, che questo è il
cammino proposto attraverso l'Iniziazione massonica.
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