Spazio e durata - la soluzione del limite nell’illimitato
Il Tempo
Ci sono nozioni filosofiche con le quali tutti noi dobbiamo fare
dolorosamente i conti. Sono idee, a tutta prima astratte, che si rivelano
nella storia con drammatica concretezza: fra queste, al primo posto, è il
Tempo. Di esso si è scritto a proposito e a sproposito; fisici, poeti,
letterati e pensatori ne hanno esaminato le varie facce.
Bent Parodi, Grande Oratore aggiunto del GOI (Revista massonica
svizzera giugno/luglio 2008)
La problematicità della nozione Tempo esercita un fascino irresistibile
su chiunque anche non interessato, normalmente, a questioni teoretiche; il
fatto che il tempo richiama, per immediata associazione, il concetto di
durata e, con essa, quello della ineluttabilità della morte. Nascita,
crescita, declino si legano intimamente all’antichissima concezione del
ciclo, su cui si basarono le religioni mediterranee pre-indoeuropee.
Tenteremo anche noi, qui, un’analisi per approcci del problema-tempo, visto
nel suo aspetto storico e semantico, con l’obiettivo di riaffermare quel
filo di continuità culturale che, sin da epoca arcaica, sembra apparentare
le prime speculazioni mitologiche alle più recenti acquisizioni della fisica
contemporanea.
Il tempo nella storia etimologica
Per la nostra indagine sommaria (sull’argomento potrebbero versarsi fiumi
d’inchiostro) partiremo dalla Grecia. Gli Elleni, indoeuropei e, perciò,
affini agli ariovedici dell’India sanscrita, chiamarono il tempo chronos, da
una radice gher; in tutta l’area linguistica aria designa il concetto di
recingere, chiudere, delimitare e simili. Essi, dunque, videro la durata
come limite, già intimamente associata all’idea dello spazio, uno spazio non
vuoto (come comunemente si ritiene) ma come recipiente di potenzialità: il
chaos teogonico – si pensi a Esiodo, a Ferecìde – che si riallaccia agli
omologhi termini chaschànò, chàschò, connessi al significato di serbatoio.
Il chaos non era il nulla (concetto, in realtà, estraneo alla mentalità
degli antichi) ma l’antefatto della vita, della molteplicità dei fenomeni, e
- per questo – quasi sempre indicato come progenitore della realtà. Caos
come spazio, allora, e lo spazio – come si sa – si è rivelato in tempi assai
recenti come tutt’altro che vuoto (il vuoto non esiste), portatore di
materia interstellare, addirittura di vita; l’analisi spettroscopica degli
astrofisici ha individuato tutti gli elementi organici necessari alla
costituzione del fenomeno-vita proprio negli spazi interstellari. E siamo al
modernissimo concetto di unità spazio-tempo, il cronotopo come è stato
chiamato con termini greci, che la fisica relativistica, da Einstein in poi,
ha posto come esigenza della sua visione cosmologica di base. Chronos,
dicevamo, fu inteso e – l’etimologia ce ne da conferma – come delimitazione
della realtà, una realtà che, dunque, supera il tempo per ampiezza e durata.
Alle stesse conclusioni giunse, già di buonora, la sapienza arcaica dei
Latini: all’ellenico chronos i Romani contrapposero tempus, la parola che ha
dato origine all’italiano tempo. Ma questo termine degli indoeuropei italici
fu mutuato dal vocabolario greco anch’esso: tempus ha la sua radice
etimologica in tem, che troviamo in temno, tagliare, cingere, conchiudere.
Si riafferma, anche in questo caso, la nozione di limite, di porzione
limitata della realtà. E la Grecia e Roma sono solo due esempi, fra i più
significativi, di questo modo di concepire il tempo nato con tutta
probabilità nell’età tardo neolitica. Fu allora, infatti, che le prime
società di agricoltori imparando a coltivare regolarmente la terra si
avvidero anche delle ferree leggi del ciclo naturale delle stagioni, a cui
le colture erano di necessità soggette. Fu anche l’epoca in cui ci si rese
conto della dualità della natura: giorno-notte, caldo-freddo, luce-buio,
nascita e morte del mondo vegetale, fenomeno – quest’ultimo – a cui fu
spontaneo associare anche l’uomo. Nacque così, in embrione, l’idea
dell’identità fra microcosmo (l’uomo) e il macrocosmo (l’universo), che nel
mondo antico giunse a completa maturazione speculativa con la riflessione
degli Stoici che intesero l’universo come un tutto vivente (universo: ciò
che si volge a unità...). La nozione di ciclo, apparsa con la cultura
neolitica della religiosità agraria mediterranea, è responsabile – come
abbiamo visto – dell’ètimo di chronos e del tempo, del loro essenziale
significato di limitazione. E quest’idea antichissima si è in fondo
mantenuta fino ai nostri giorni nella coscienza comune, chiaro retaggio
delle nostre inalienabili radici motivazionali.
Nemico e limite dell’uomo
Ma il tempo, nemico dell’uomo in quanto lo limita, lo frena nel suo
irresistibile impulso di autotrascendimento, si prestò anche ad altre
interpretazioni, anch’esse sopravvissute fino ai nostri giorni: in tutte le
culture ritroviamo accanto al tempo-limite anche il tempo-senza tempo,
l’eternità come proiezione e realistico traguardo della durata-provvisoria.
La geometria ci ha insegnato che il segmento è una porzione finita della
retta infinita; in filosofia riscontriamo l’analogo rapporto tempo-eternità
ed eternità etimologicamente si ricollega al tempo, all’evo, al grande ciclo
affermato dalla filosofia induista (il para-brahman, il kali-yuga). Perché,
sin dal sorgere della speculazione mitica, prima, e ragionale, poi, gli
uomini sono stati portati istintivamente a vedere nel tempo il suo
superamento? Probabilmente perché vi è innata nell’uomo un’esigenza di
totalità, che gli fa cogliere intuitivamente l’infinito, pur essendo questo
posto al di là della possibilità del nostro pensiero e, quindi,
rappresentabile solo attraverso il simbolo. Il simbolo ci dà la chiave di
volta, di decifrazione della realtà metastorica, dell’al-di-là delle cose.
L’origine della parola ci rinvia ai concetti di allusione, di contrassegno e
di riferimento sottinteso; e non è un caso che nel mondo della sapienza
greca, magistralmente scandagliato da Giorgio Colli, riscontriamo agli
albori della speculazione l’enigma, il nascosto. «La natura ama nascondersi
», affermava Eraclito. «Agli dèi non piace ciò che è manifesto, essi amano
l’enigma», affermano ancora le Upanishad indiane. La soluzione del limite
nell’illimitato trovò il suo primo ambito di pertinenza nelle società
misteriche. E non c’è dunque da stupirsi se già con l’orfìsmo chronos il
limite fu identificato (associazione magica fondata sull’omofonìa) con
Kronos, l’antico dio dei monti della religiosità pregreca. Qui Ker, la
radice di Kronos, allude al fare, all’eseguire e fu facile per le
speculazioni mistiche dell’antica Grecia sovrapporre alla figura mitologica
di Kronos un’attività demiurgica di creatore della realtà, che si attribuì,
quindi, al tempo, alla dimensione dionisiaca che troverà ancora un’eco
nell’interpretazione di Nietzsche. L’innocenza creativa si svolge nella
dimensione del limite per superarsi e trascendere nel senza-limiti,
nell’Eternità agognata da tutti gli iniziati d’ogni tempo, dagli Orfici ai
teosofi del mondo contemporaneo.
Tempo come Tempio
E veniamo alla seconda coincidenza semantica. Il verbo greco témno, che –
abbiamo visto – significa tagliare e che, in questa sua accezione particolare,
ha provocato la formazione del vocabolo latino tem-pus, tempo, nasconde altre
possibilità di analisi che rinviano alla contrapposizione del tempo profano a
quello sacro, del tempo secolare a quello mitico dell’eterno. Témno ha prodotto
la parola témenos, recinto chiuso e consacrato, propriamente: cioè, il tempio
greco, il luogo di dio. E lo stesso termine, ripreso dal vocabolario ellenico,
ritroviamo nel latino templum, nell’italiano tempio, sempre col medesimo
significato di fondo a cui rimanda l’etimologia. V’è, sottinteso, un fecondo
rapporto dialettico di identificazione magica fra tempo e Tempio, di cui s’è
perduta cognizione ma non sentimento. L’uomo in questa polarità di significati,
entrambi validi e veri ad un diverso livello dell’esistere, compie una scelta di
campo irreversibile per il suo stesso destino: vivere nel limite o, piuttosto,
nella dimensione di eternità. La svolta drammatica in più tempi riproposta
dall’antico invito delfico «Conosci te stesso», svela il senso profondo dei
misteri e del messaggio mitico, di cui la filosofia non serberà che un parziale
ricordo, un’oscura nostalgia come aspirazione alla sapienza. E chi è sapiente?
Chiunque può esserlo, e in potenza lo è. E ancora Colli (La nascita della
filosofia) a ricordare che sapiente è chi getta luce nell’oscurità, chi scioglie
i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa l’incerto. Per essere sapienti
bisogna tornare al mito. Di miti c’è ancora – e, soprattutto oggi – grande
bisogno. Ma la dimensione mitica mal si attaglia all’esasperato razionalismo,
alle rigidità filologiche. La filosofia corrente non ci viene in soccorso perché
essa ha perduto il filo d’Arianna: il simbolo. Persino un grande filologo, come
il tedesco Ulrich Wilamovitz von Moellendorf, notissimo per il suo estremo
scrupolo testuale, ebbe un cedimento mitico. E scrisse, narrando d’un suo
viaggio in Arcadia, d’essersi imbattuto in un Sileno... E il suo racconto non fu
privo d’una certa commozione. Il simbolo è un’esigenza profonda dello spirito,
la via per superare il tempo e accedere al Tempio.
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