Tema
Giordano Bruno - il processo
Giordano Bruno non si reputava eretico;
egli sapeva di aver cercato con
onestà intellettuale la verità religiosa,
credeva in una Divinità panteistica che
permea tutto e tutti, lui compreso, e
non riusciva a comprendere per quale
motivo la Chiesa Cattolica non si comportasse
con la medesima onestà e
impedisse la libera ricerca di Dio.
Morris Ghezzi, membro del Grande Oriente d’Italia (Revista massonica svizzera febbraio 2009)
Il processo di revisione critica, attualmente
in atto, all’interno della Chiesa Cattolica
nei confronti dei famigerati comportamenti
inquisitoriali, che produssero
la condanna di Galileo Galilei, può, forse,
evidenziare una certa buona volontà delle
gerarchie ecclesiastiche nel riconoscere i
propri errori passati e, al contempo, il
chiaro imbarazzo di chi si vede costretto a
difendere posizioni ormai anacronistiche
e irrevocabilmente condannate dalla storia,
ma sicuramente non può nascondere
il profondo e indissolubile legame che
unisce tali eccessi al dogmatismo intransigente
di una fede religiosa, quale è
quella cattolica, convinta di detenere il
monopolio della verità assoluta e rivelata.
Infatti, mentre riguardo al processo Galileo
il Papa vacilla e sente sulle proprie
spalle il peso di tutta la vergogna che deve
ricoprire l’ignoranza di una dottrina ormai
sconfitta dalla ricerca scientifica, rispetto
al processo Giordano Bruno tace e tenta
di far dimenticare il rogo sul quale fu bruciato
il 17 febbraio 1600 in Campo dei
Fiori a Roma, per ordine del successore di
Pietro, del rappresentante di Cristo in
terra, di quel Clemente (di nome e non di
fatto) VIII, il filosofo di Nola. La doppia
verità, quella religiosa e quella scientifica,
servì a salvare Galileo dal rogo all’epoca
del processo e serve oggi alla Chiesa, al di
là delle sofisticate ricerche e congetture di
Pietro Redondi (P. Redondi, Galileo eretico,
Einaudi, 1983) intorno alla vera accusa
occultamente mossa dal Collegio romano
dei Gesuiti a Galileo, a ritrattare la propria
posizione senza minimamente intaccare il
proprio dogmatico e fanatico credo. Ben
diversa, invece, è la situazione nei confronti
di Giordano Bruno, il quale volle
entrare nel merito della verità filosofica e
religiosa per discutere il magistero stesso
della Chiesa. Galileo si occupava di
scienza, Bruno parlava di temi religiosi,
intendendo per religione la ricerca intorno
ai grandi interrogativi esistenziali
dell’uomo: chi siamo, da dove veniamo e
dove andiamo.
Il libro di Luigi Firpo
Luigi Firpo affronta con grande rigore storico
e fuori dalle contingenti polemiche
politiche il processo a Giordano Bruno. Tra
il 1948 e il 1949 egli pubblicò in due puntate
sulla Rivista Storica Italiana un saggio
intitolato Il processo di Giordano
Bruno. Tale saggio venne poi raccolto in
un libro edito nel 1949 dalle Edizioni
scientifiche italiane di Napoli e ora, dopo
la scomparsa dell’Autore avvenuta il 2
marzo 1989, è disponibile una nuova edizione
del 1993, curata da Diego Quaglioni,
ad opera della Salerno Editrice di
Roma. Il libro attualmente in distribuzione
si apre con un’articolata introduzione
di Quaglioni, che inquadra con precisione
sia la ricerca dell’Autore, sia le
principali problematiche storiche e storiografiche
relative al processo in esame,
e si chiude con una fedele e voluminosa
raccolta di tutta la documentazione processuale
ad oggi disponibile. Racchiusa
tra questi due estremi è collocato il testo
di Firpo, che rende conto delle vicissitudini
di Bruno tra l’agosto 1591, anno del
suo rientro in Italia, e il 1600, data fatale
della sua esecuzione capitale. L’autore
sottopone ad esame la denunzia, anzi le
denunzie presentate da Zuane Mocenigo
all’inquisitore di Venezia Giovan Gabriele
da Saluzzo contro Giordano Bruno (maggio
1592); si sofferma con attenzione
sulle prime testimonianze e sulla fase
veneziana del processo, che termina con
la concessione da parte del Senato di
Venezia, su richiesta del Sommo Pontefice,
dell’estradizione del Nolano e con la
conseguente traduzione del medesimo a
Roma (febbraio 1593); affronta il tema della seconda denunzia per eresia mossa
al Bruno da un ex compagno di cella del
periodo di detenzione veneziana, il cappuccino
Celestino da Verona (autunno
1593), che verrà poi bruciato vivo in
Campo dei Fiori cinque mesi prima del
Nolano; quindi analizza le varie fasi del
processo inquisitoriale romano, compresa
la ricerca dei testi scritti dal filosofo, quali
elementi di prova a carico, e la censura
dei medesimi, sino a concludere la sua
fatica con la sentenza di condanna del
Bruno, che con tenace decisione si era
rifiutato di riconoscersi eretico sia di
fronte alle otto proposizioni sottopostegli
dal cardinale Roberto Bellarmino, sia di
fronte all’estremo tentativo di ricevere la
sua abiura compiuto dal generale Beccaria
e dal procuratore Isaresi, confratelli
domenicani del filosofo di Nola.
I capi d’accusa
Tra i personaggi del processo spicca per
bassezza morale e ottusità intellettuale,
come sostiene Firpo stesso, la figura del
patrizio veneziano Mocenigo, il quale,
dopo aver invitato presso di sé il Bruno
per essere erudito nell’arte della memoria,
ma in realtà maggiormente interessato
a tanto mirabolanti quanto inesistenti
segreti di natura magica, deluso e
stizzito lo denunzia all’Inquisizione.
Giordano Bruno viene accusato di avere
opinioni avverse alla S. Fede e di aver
tenuto discorsi contrari ad essa e ai suoi
ministri; di avere opinioni erronee sulla
Trinità, la divinità di Cristo e l’incarnazione,
sulla transustanziazione e la S.
Messa; di sostenere l’esistenza di molteplici
mondi e la loro eternità; di credere
alla metempsicosi e alla trasmigrazione
dell’anima umana nei bruti; di occuparsi
di arte divinatoria e magica; di non credere,
infine, alla verginità della Madonna.
Appare subito evidente che i capi d’accusa
rivolti al Nolano nella prima denunzia
da lui subita (ma la situazione non
cambia per le successive denunzie e
accuse, che sostanzialmente ripercorreranno
i medesimi argomenti) riguardano
tutti indistintamente un tipo di reato che
oggi verrebbe definito d’opinione. Ossia
l’Inquisizione della Chiesa Cattolica
muove contro il filosofo non per atti da
lui compiuti, ma per le idee espresse e
cercherà per tutta la durata del processo
di indurlo al pentimento e alla ritrattazione.
Successivamente un altro personaggio
ignobile compare sulla scena processuale:
è il cappuccino Celestino da
Verona, il quale, convinto erroneamente
di essere stato danneggiato nella sua
situazione giudiziaria da alcune e non
meglio precisate dichiarazioni del Bruno,
presenta contro quest’ultimo un’ulteriore
denunzia di eresia e di blasfemia.
Processo alle opinioni
Di fronte a questi squallidi personaggi e
intenti sorge subito spontanea una riflessione:
un processo fondato sulla delazione
e sul pentimento di soggetti coinvolti
a qualche titolo nella vicenda giudiziaria
stessa, come è appunto il processo
inquisitoriale in esame, non solo
mette necessariamente in pericolo i
diritti dell’imputato, ma non fornisce
neppure sufficienti garanzie intorno alla
ricerca di una verità fattuale e non preconcetta.
Tale riflessione potrebbe tranquillamente
essere ripetuta per molti
processi a noi contemporanei, condotti
da una magistratura inquirente, che ha
ereditato il ruolo e lo spirito della magistratura
inquisitoriale. Il processo contro
Giordano Bruno, dunque, non fu solo un
processo alle opinioni del filosofo, ma si
fondò anche su un sistema probatorio
profondamente inquinato dalla violenza
di lunghe detenzioni preventive, dall’intimidazione
di continui tentativi di
costringere il detenuto al pentimento e
alla confessione e dal sospetto legato alla
delazione anche anonima. Nonostante
tutto ciò il modello inquisitoriale non
riuscì a produrre una qualche sentenza,
se non dopo ben quasi dieci anni di
detenzione dell’indiziato. E di indiziato in
senso tecnico si trattava, infatti, anche
per le leggi dell’epoca, dal momento che
tutto il processo fu costruito e tenuto in
piedi sulla base di semplici indizi e solo il
rifiuto opposto dall’imputato a ritrattare
l’elenco di otto capi d’accusa, estratti
dagli atti del processo dal gesuita Bellarmino,
produsse la sua condanna. In breve,
l’Inquisizione era prevalentemente interessata
al ravvedimento spirituale del
Bruno e quindi cercava una sua piena
confessione con relativo pentimento. Di
fronte al diniego del filosofo essa trasportò
sul piano giudiziario la sua condanna
di ordine morale e religioso, ma
fece ciò non senza ipocrisia. Ipocrisia che
si legge con raccapriccio nella copia parziale
della sentenza destinata al Governatore
di Roma (8 febbraio 1600). In essa
il Tribunale ecclesiastico affida Giordano
Bruno al braccio secolare affinché venga
punito, con la raccomandazione, però, di
mitigare il rigore della legge e di evitare
al condannato la pena di morte o la mutilazione.
Era a tutti noto, allora come ora,
che la consegna al braccio secolare con
una sentenza di condanna per eresia
come quella comminata al Bruno comportava
automaticamente il rogo. A poco
vale la riflessione di Firpo secondo la
quale la Chiesa Cattolica avrebbe applicato senza preconcetta acredine nei confronti
dell’imputato la normativa penale
e processuale vigente. È proprio tale normativa,
in quanto vigente ed espressione
di violenza contro l’individuo, di assolutismo
politico e di intolleranza nei confronti
delle idee, che suona come irrevocabile
condanna della Chiesa romana.
L’estradizione a Roma
Il processo e la relativa documentazione
ci forniscono un interessante quadro
sociologico della realtà carceraria
dell’epoca, ma, soprattutto, delle dinamiche
intercorrenti tra i vari personaggi:
denunziante e accusato, tribunale e
imputato, testimoni, ecc. In particolare,
emerge una dinamica tipica dei processi
penali: quella relativa alla competenza di
giudizio. L’Inquisizione veneziana sosteneva
la propria, ma quella romana pretendeva
l’estradizione dell’imputato in
quanto pubblico e convinto eresiarca,
suddito napoletano, religioso regolare e,
soprattutto, già inquisito in Napoli e
Roma. Il Nunzio Apostolico Ludovico
Taverna motivò con tali argomentazioni il
desiderio di Papa Clemente VIII di processare
il Bruno a Roma. Tuttavia, come
scrive Firpo: «Quello che… faceva difetto
nel discorso del nunzio era la sincerità,
poiché il Bruno non era stato per nulla
convinto di eresia dall’unico teste e
poteva semmai dirsi parzialmente confesso;
inoltre i giovanili processi di Napoli
e di Roma riguardavano l’Ordine domenicano
e non già l’Inquisizione…» (L. Firpo,
Il processo di Giordano Bruno, Salerno
Editrice, Roma, 1993, p. 38) In ogni caso,
non fu facile sottrarre a Venezia la giurisdizione:
era un problema di prestigio e di
sovranità politica della Serenissima.
Infatti, mentre in un primo tempo il
diniego fu deciso e apparentemente irremovibile,
successivamente e solo dopo
aver riconosciuto l’eccezionalità del caso,
che in nulla intaccava l’autonomia di
Venezia, si convenne di concedere quanto
richiesto da «Sua Santità come segno
della continuata prontezza della Repubblica
in farle cosa grata». (L. Firpo, Il processo
di Giordano Bruno, p. 212) Le
ragioni di Stato erano salve sia sotto il
profilo della sovranità della giurisdizione
veneta che sotto quello dei buoni rapporti
con la Santa Sede, ma i diritti dell’imputato
erano stati decisamente dimenticati
e, comunque, subordinati a ben più rilevanti
interessi di natura politica.
Voleva discutere con il Pontefice
È possibile interrogarsi intorno alle motivazioni
che resero il Santo Padre (detto
con ironia) tanto ansioso di condurre la
causa di Giordano Bruno sotto il proprio
potere. Del resto, lo stesso filosofo nolano
si illudeva di poter ragionare, su un piano
di parità, con il Pontefice intorno ai principali
temi di filosofia, di teologia e di
religione. Forse, proprio questa illusione
di poter avere un dialogo sincero con il
massimo vertice della Chiesa Cattolica,
dialogo dal quale avrebbe potuto scaturire
una profonda riforma dal di dentro
del Cristianesimo, una sua radicale sdogmatizzazione
e razionalizzazione, condusse
Bruno in Italia dopo il suo lungo
peregrinare nei vari Stati europei. «Nella
propria filosofia il Nolano era venuto
riconoscendo sempre più distintamente
un valore etico-sociale, una significazione
di annunzio evangelico e di universale
rigenerazione; l’insegnamento diveniva
predicazione e apostolato, e la sua
opera di rinnovatore della scienza – tollerata,
se non applaudita, in Germania –
si espandeva in un’azione di riforma religiosa,
che le Chiese protestanti mostravano
di reprimere con intransigenza non
meno rigorosa di quella che lo stesso
impulso avrebbe trovato in un paese cattolico.
La religione che il Bruno propugna
è una religione intellettualistica, naturalistica,
semplificata, spoglia di dogmatismi,
al fine di sgombrare il terreno da
ogni appiglio alle disquisizioni e alle eresie;
un deismo fondato sulla carità concorde
degli uomini, che più nulla ha di
comune con la dottrina rivelata del Cristianesimo.
» (L. Firpo, Il processo di Giordano
Bruno, p. 10) Come poteva sperare
Bruno nella benevolenza e nell’onestà
intellettuale di un Pontefice e di una
Chiesa ormai completamente immersa
negli interessi politici terreni, piuttosto
che nella ricerca religiosa del trascendente?
La domanda non ha facile risposta,
entrano sicuramente in gioco le illusioni
e la presunzione personale del filosofo,
ma soprattutto appare prepotentemente
quella profonda e indomabile fede
del Bruno nell’universalità del Divino.
Quella stessa fede che gli fece gridare
contro i suoi giudici la famosa frase,
ormai dimostrata non leggendaria, ma
storica: «Forse con maggior timore pronunciate
contro di me la sentenza, di
quanto ne provi io nel riceverla.»
Libera ricerca - non eresia
Giordano Bruno non si reputava eretico;
egli sapeva di aver cercato con onestà
intellettuale la verità religiosa, credeva in
una Divinità panteistica che permea tutto
e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere
per quale motivo la Chiesa Cattolica
non si comportasse con la medesima
onestà e impedisse la libera ricerca
di Dio. «Si genera in lui la persuasione di
essere vittima di una congiura di teologi
che vogliono far passare per errore quello
che tale non è, o almeno mai fu definito,
ed egli sente che l’opinione sua vale la loro
e non vuole accettare la sentenza; nega
perciò di aver mai sostenuto eresie, non
riferendosi insensatamente alla massa
delle accuse del processo, ma al ristretto
elenco di tesi filosofiche condannate, e
rifiuta di rinnegarle non per ostinazione
assoluta, ma per non soggiacere a quello
che gli pare un sopruso; si appella con gli
ultimi memoriali al Papa, sperando che
Clemente VIII potesse intervenire, giudice
imparziale, in una disputa nella quale
Giordano vede se stesso e i membri del tribunale
in qualità di contendenti, eguali
affatto per autorità e dignità.» (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, pp. 110-111)
Il Nolano si propone come paladino della
libera ricerca individuale in materia filosofico-
religiosa e spera nel Papa come
vero e imparziale garante di Dio in terra,
come sacerdote di una religione senza
interessi terreni. Mai errore fu più fatale
ad un uomo! Egli non si avvide di non avere
di fronte una religione con interessi puramente
trascendenti, ma un vero e proprio
Stato votato all’egemonia politica nel
mondo. Il tribunale, nel quale discuteva la
propria posizione filosofica, il proprio
credo religioso e nel quale riceveva contestazioni,
proposizioni da abiurare e a sua
volta presentava memoriali, rifiutava pentimenti
e ritrattazioni, non era né l’università
di Oxford né quella di Wittenberg, ma
semplicemente l’Inquisizione, ossia uno
strumento mondano di controllo, condizionamento
e repressione dei sudditi e del
loro pensiero. Bruno viene macinato lentamente
nell’arco di quasi dieci anni da
questa macchina mostruosa presieduta
dal Papa dei cattolici. Non solo Clemente
VIII non è garante di libertà, ma, al contrario,
è il capo politico di uno Stato e di
un partito votati al mantenimento della
realtà sociale esistente all’epoca nella
penisola italiana e nel mondo cattolico, è
il custode di un’ortodossia religiosa che
non intende lasciare nessuno spazio alla
libera ricerca individuale, è il rappresentante
di una casta sacerdotale che si è
organizzata e istituzionalizzata per meglio
tutelare i propri privilegi e il proprio potere
su altri uomini e sulle loro idee.
Condanna della Chiesa-Stato, non della
religione
In questo quadro risulta chiaro l’errore di
Bruno; non era un errore di natura teologica,
ma di natura socio-politica. Egli credeva
di aver di fronte una religione e invece
aveva di fronte uno Stato. Perché dichiararsi
eretico se non si riconosce alla religione
istituzionalizzata il diritto di definire
un vero ortodosso? Perché sottomettersi a
chi non possiede nessun diritto superiore a
quello proprio di qualsiasi uomo di definizione
della verità? Perché pentirsi se l’errore
è opinabile? In breve, il Nolano contestava
alla Chiesa il potere di definire l’errore
filosofico-religioso e quindi la legittimità
di formulare una qualsiasi condanna.
E Bruno avrebbe avuto ragione se effettivamente
si fosse trovato di fronte ad una
vera religione alla ricerca di Dio e tollerante
delle ricerche esistenziali di tutti i figli di
questo Dio, ma per sua sfortuna egli invece
cadde nella trappola tesa da uno Stato teocratico,
organizzato e agguerrito per conseguire
l’egemonia sul mondo, che, come
ogni vero Stato, utilizza il proprio ordinamento
giuridico e i propri tribunali per
legittimare gli atti di forza che compie. La
legittimità della condanna del Bruno, dunque,
proviene non dalla presunta verità,
detenuta da una qualche religione e, in
particolare, da quella cattolica, ma dall’ordinamento
giuridico intollerante di una
Chiesa-Stato, quella romana, che intese
imporre il proprio credo ideologico anche
con la forza. Firpo riconosce, come si è già
detto, a questa Chiesa-Stato l’applicazione
nel processo a Bruno dell’ordinamento
giuridico vigente all’epoca nei processi
inquisitoriali e, in tale modo sembra voler
legittimare formalmente l’operato di tale
tribunale. Ma ciò che è in discussione nel
nostro caso non è la legittimità giuridica di
un provvedimento statale, bensì la legittimità
religiosa di un comportamento contro
la libertà dell’uomo e delle sue idee.
Forse, e ne dubito, la Chiesa potrà essere
assolta, in quanto Stato, dall’avere ucciso
Giordano Bruno, ma sicuramente dovrà
essere condannata come religione per
questo delitto.
La Chiesa atea…
Il timore che Bruno legge nei volti dei suoi
giudici mentre pronunziano la sua sentenza
di morte probabilmente non è politico
- la Chiesa era allora trionfante e
potente -, ma soprattutto religioso. Non
poteva sfuggire a quei giudici che il loro
potere di condanna era meramente terreno
e che il prevalere della cristallizzazione
istituzionale e del fine politico nella
Chiesa Cattolica non avrebbe potuto produrre
altro che la fine del sentimento religioso,
la fine, appunto, del Cattolicesimo
come religione. Forse, una religione rivelata
può anche presumere di detenere la
verità, ma certamente tale possesso non
può giustificare la soppressione fisica di
colui che a sua volta cerca la propria
strada verso la divinità. Non si tratta, in
questo caso, di semplice carenza di tolleranza
laica, ma di vera e propria contraddizione
sul piano religioso. La scintilla
divina che Giordano Bruno presuppone
esistente in ciascuno di noi viene, da quei
giudici, negata e Dio ridotto all’idolo, al
totem legittimante i comportamenti della
Chiesa-Stato. Bruno non teme la morte sul
rogo perché crede «che se ne sarebbe la
sua anima ascesa con quel fumo a ricongiungersi
all’anima universale». (L. Firpo, Il
processo di Giordano Bruno, p. 104) Quei
giudici, quella Chiesa, invece, temono la
morte poiché non credono né in un Dio
universale, né nell’anima individuale,
espressione di questo Dio; temono la
morte perché sono profondamente atei e
sanno che la loro sentenza manifesta,
svela al mondo questo loro ateismo, questa
loro profonda, radicata e intollerante
sfiducia nella divinità e nell’uomo libero.
(L’articolo è tratto da Hiram 3/2000)
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