Tema
Il lavoro
Se il compito dell’Apprendista è
quello di imparare, dal Compagno ci si attende che sappia
mettere in pratica ciò che ha appreso. Il lavoro è quindi al
centro dell’attività del Compagno ed è appunto su questo tema
che vorrei attirare la vostra attenzione.
Daniele Bui, Loggia Il Dovere, Lugano
Il lavoro
nell’antichità e nel Medio-Evo
Tradizionalmente il lavoro
è stato percepito come un’attività forzata e penosa. Si pensi
- Alla sentenza divina
nella Bibbia: “Tu guadagnerai il tuo pane con il sudore della
tua fronte”
- O al mito dell’età d’oro,
un’epoca felice nella quale l’uomo non aveva bisogno di
lavorare. Parlando dei primi uomini, Platone dice che: “ Avevano
frutti abbondanti dagli alberi e da molte altre piante, che
nascevano non ad opera dell’agricoltura, bensì perché la terra
li produceva spontaneamente…È facile, aggiunge Platone,
giudicare che gli uomini di allora erano infinitamente più
felici di quelli di oggi” (Il Politico, 272°)
- La lingua stessa traduce
questo concetto: L’etimologia di lavoro, in francese, travail,
viene dal latino popolare tripalium, che designa sia uno
strumento al quale si sottomettevano i cavalli per ferrarli, sia
uno strumento di tortura. Tripaliare (in latino volgare)
significa torturare.
- Si parla anche di
travaglio nel caso di donne che stanno partorendo per
sottolinearne la sofferenza. Per i greci il lavoro ha sempre
rappresentato la miseria e non certo la nobiltà
dell’uomo.
Callicle, nel Gorgia di
Platone, afferma che l’uomo che lavora con le mani, va
disprezzato, va chiamato banausos per offenderlo e addirittura
sembra che nessuno avrebbe voluto dare la propria figlia come
sposa ad un costruttore di utensili. Per Aristotele gli “operai
meccanici” non avevano neppure diritto di cittadinanza tant’è
che li aveva relegati al rango di schiavi.
Marco Terenzio Varrone,
parlando degli strumenti con cui si lavora la terra, li divide
in tre categorie: strumenti parlanti (=schiavi), strumenti
semiparlanti (=buoi), strumenti muti ( =gli utensili)
L’opposizione tra schiavi e liberi si estendeva all’opposizione
tra tecnica e scienza, tra forme di conoscenza legate alla
manipolazione e una conoscenza pura espressa nella
contemplazione della verità. Il disprezzo per gli schiavi,
considerati inferiori per natura, si ampliava così alle attività
che essi esercitavano.
Le sette arti liberali del
trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio
(aritmetica, geometria, musica, astronomia) si chiamavano
liberali perché erano le arti proprie degli uomini liberi in
quanto contrapposti ai non liberi o schiavi che esercitavano le
arti meccaniche o manuali.
La rivalutazione
del lavoro manuale
Per una rivalutazione della
vita attiva bisognerà attendere fino al 1400. L’elogio delle
mani, che è presente nei testi di Giordano Bruno, la difesa
delle arti meccaniche, che compare in tanti testi di ingegneri e
di costruttori di macchine del 1500 e che viene ripresa da
Bacone e Galileo possono essere compresi e valorizzati
pienamente solo tenendo conto del contesto storico nel quale
emergono.
Per rendersi conto
dell’importanza e del significato di queste prese di posizione
in difesa del lavoro manuale nonché del suo valore culturale
vale la pena di ricordare che alla voce “mécanique” il
Dictionnaire français di Richelet (pubblicato nel 1680) riceveva
ancora la seguente definizione : “il termine meccanico, in
riferimento alle arti, significa ciò che è contrario a liberale
e onorevole : ha senso di basso, villano, poco degno di una
persona onesta.” Le tesi di Callicle quindi sono tutt’altro che
tramontate ancora nel Seicento.
L’illuminismo, che assume
la Rivoluzione scientifica come modello di razionalità, prosegue
l’opera di rivalutazione del lavoro empirico soprattutto nell’Encyclopédie
dove Denis Diderot colloca le arti ed i mestieri in una
posizione centrale. Anche Jean-Jacques Rousseau, nei suoi
scrittipedagogici, illustrando l’educazione che dovrebbe essere
impartita ad Emilio, prende il lavoro manuale ad esempio di un
apprendimento produttore di socievolezza e solidarietà.
Hegel contribuisce a sua
volta a rivalutare il lavoro. Memorabile è l’episodio dialettico
del padrone e dello schiavo. Due uomini lottano uno contro
l’altro. Uno è coraggioso, accetta di rischiare la vita nel
combattimento, mostrando così che è un uomo libero. L’altro, che
non osa rischiare la sua vita, si sottomette. Il vincitore non
uccide il suo prigioniero, al contrario lo conserva come
testimone e specchio della sua vittoria. Tale è lo schiavo, il
servus, colui che alla lettera è stato conservato. Il padrone
obbliga lo schiavo al lavoro, mentre lui si gode la vita. Il
padrone non coltiva il suo giardino, non fa cuocere i suoi
alimenti, non costruisce la sua casa. Ha il suo schiavo per
questo. Il padrone non conosce più i rigori del mondo materiale
perché ha interposto uno schiavo tra il mondo e lui. Ma il
padrone viziato dall’ozio, presto non sa più far niente. Per
contro lo schiavo, costantemente occupato a lavorare, impara a
vincere la natura utilizzando le leggi della materia e recupera
una certa forma di libertà (il dominio della natura) con le sue
scoperte tecniche. Attraverso una conversione dialettica
esemplare, il lavoro servile gli rende la sua libertà. Fu un
uomo pavido, rinunciò alla sua libertà per non morire, ridiventa
ora un uomo libero ponendosi come libertà ingegnosa contro la
natura che assoggetta al momento stesso in cui il padrone, che
non sa più lavorare, ha sempre più bisogno del suo schiavo e
diventa il qualche modo lo schiavo dello schiavo.
Quindi la dinamica servo
padrone (che corrisponde al tipo di società del mondo antico) è
destinata a mettere capo ad una paradossale inversione di ruoli,
ossia ad una situazione per cui il padrone diventa servo del
servo e il servo padrone del padrone. Infatti, il padrone, che
inizialmente appariva indipendente, nella misura in cui si
limita a godere passivamente del lavoro altrui, finisce per
rendersi dipendente dal servo. Invece quest’ultimo, che
inizialmente appariva dipendente, nella misura in cui
padroneggia e trasforma lecose da cui il signore riceve il
proprio sostentamento, finisce per rendersi indipendente. Il
lavoro appare allora, come per noi Massoni, l’espressione della
libertà riconquistata.
Il lavoro quindi non
contribuisce solo a rendere più abitabile, più umano il nostro
ambiente naturale ma il lavoro umanizza anche il lavoratore.
Ogni lavoro, diceva Emmanuel Mounier, travaille à faire un homme
en même temps qu’une chose (contribuisce alla costruzione di un
uomo contemporaneamente alla costruzione di una cosa). Si tratta
di un principio fondamentale in Massoneria. Sia prima che dopo
il Fr. Anderson il nostro Ordine si è costantemente definito
un’istituzione che vede nel lavoro un mezzo di perfezionamento,
uno strumento indispensabile nella ricerca della verità. Nella
Massoneria operativa il lavoro era sostanzialmente quello
relativo alle edificazioni di cattedrali. Con l’avvento della
Massoneria speculativa esso è diventato un’attività costante
volta al miglioramento spirituale dell’iniziato. Lavorare è
forse il miglior esorcismo contro l’egoismo naturale. Lavorare
significa uscire da sé stessi. Gli psichiatri applicano questo
principio quando prescrivono un lavoro ai loro pazienti. Il
malato mentale a cui si consegna un piccolo lavoro ritrova un
qualche equilibrio e si rende utile, si occupa, si dimentica un
po’ di sé stesso. Il lavoro dà all’esistenza un ordine, una
regolarità salutari. Il tempo nel quale vive l’ozioso è
discontinuo ed eterogeneo; scorre al ritmo capriccioso delle
passioni. Il tempo del lavoratore, regolato dagli orari, impone
alla vita un equilibrio salubre.
Inoltre il lavoro
contribuisce ad inserire le persone nel tessuto sociale.
Lavorare significa trovare un suo posto nella società di cui
tutti gli elementi sono solidali. L’uomo non può compiere i
gesti più ordinari, bere un bicchier d’acqua, accendere una
lampadina…senza usufruire del lavoro degli altri. Si pensi
solamente a quante persone sono coinvolte affinché noi possiamo
vestirci alla mattina. C’è il lavoro dei contadini e degli
allevatori per il reperimento della materia prima, il lavoro dei
conducenti che trasportano i prodotti, dei commercianti, il
lavoro dei tecnici che hanno costruito i telai che servono a
fabbricare gli indumenti…Il nostro lavoro rappresenta così un
debito che noi abbiamo contratto usufruendo del lavoro altrui.
Esiste una sorta di solidarietà sincronica dei lavoratori che si
scambiano vicendevolmente i loro servizi e una solidarietà
diacronica che ci permette di trarre profitto dai lavori di chi
ci ha preceduto e che dovrebbe obbligarci moralmente a lavorare
per chi verrà dopo di noi.
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