Dossier

È giusto porre dei limiti alla libertà di parola?

Dopo gli eventi drammatici di Parigi sono in molti a chiedersi se è opportuno - e soprattutto se è giusto - porre dei limiti alla libertà di parola. Il problema non è nuovo e si ripresenta ogni volta che una parte di cittadini si sente offesa da certe forme e da certi contenuti espressivi.

Discutendo della strage di Parigi mi è capitato di ascoltare diverse persone affermare testualmente: «Se la sono cercata !». In altri termini secondo loro non ci sarebbe da stupirsi di queste reazioni violente da parte di frange dell’integralismo islamico come risposta al tipo di satira offensiva dei giornalisti di Charlie Hebdo. Ritengono che il massacro si sarebbe potuto facilmente evitare con un minimo di prudenza editoriale. Sono quindi convinti della necessità di porre dei limiti alla libertà di espressione e di sanzionare chi non li rispetta. Anche il governo inglese ha deciso di seguire questa politica preferendo sacrificare la libertà di parola nell’interesse di altri valori come la sicurezza o la sensibilità religiosa all’offesa. Non si tratta, beninteso, di giustificare l’azione dei terroristi ma piuttosto di comprenderla per prevenire aggressività e violenza.

Il nodo della questione

Il perno del problema è quello di capire quali possano essere i limiti precisi a cui fanno allusione. John Stuart Mill nel suo memorabile Saggio sulla libertà aveva sostenuto che in ogni caso una certa moderazione nell’espressione delle proprie idee è auspicabile. Una linea di demarcazione che segna i limiti di un’accettabile libertà di parola è individuato da Mill nella specifica situazione in cui essa diventa un incitamento a far del male ad altre persone. Non tanto un danno psicologico ma fisico. Quando esprimere un’idea costituisce un atto di incitamento «a qualche azione malvagia », allora l’ espressione di tale idea deve essere esclusa in base al «principio del danno». Un famoso esempio di Mill teso ad illustrare questo principio riguarda la contrapposizione tra un articolo di giornale in cui si afferma che i commercianti di grano sono affamatori dei poveri e la stessa opinione espressa ad una folla inferocita riunita davanti alla casa di un particolare commerciante di grano.

In una società libera, tutte le forme di credo dovrebbero essere aperte all’esame, alla critica, alla parodia e potenzialmente al ridicolo.

governo inglese ha deciso di seguire questa politica preferendo sacrificare la libertà di parola nell’interesse di altri valori come la sicurezza o la sensibilità religiosa all’offesa. Non si tratta, beninteso, di giustificare l’azione dei terroristi ma piuttosto di comprenderla per prevenire aggressività e violenza.

Il nodo della questione

Il perno del problema è quello di capire quali possano essere i limiti precisi a cui fanno allusione. John Stuart Mill nel suo memorabile Saggio sulla libertà aveva sostenuto che in ogni caso una certa moderazione nell’espressione delle proprie idee è auspicabile. Una linea di demarcazione che segna i limiti di un’accettabile libertà di parola è individuato da Mill nella specifica situazione in cui essa diventa un incitamento a far del male ad altre persone. Non tanto un danno psicologico ma fisico. Quando esprimere un’idea costituisce un atto di incitamento «a qualche azione malvagia », allora l’ espressione di tale idea deve essere esclusa in base al «principio del danno». Un famoso esempio di Mill teso ad illustrare questo principio riguarda la contrapposizione tra un articolo di giornale in cui si afferma che i commercianti di grano sono affamatori dei poveri e la stessa opinione espressa ad una folla inferocita riunita davanti alla casa di un particolare commerciante di grano. incitamento e perciò passibile di esclusione dal generale «principio del danno».

Se decidessimo di prendere tale ragionevole principio come criterio per stabilire ciò che è permesso esprimere o meno e lo applicassimo al caso delle vignette su Maometto mi sembra che da queste non emerga alcun incitamento da parte dei giornalisti ad esercitare violenza fisica su qualcuno. Da questo punto di vista le vignette non dovrebbero essere sottoposte ad alcuna censura. Gli integralisti islamici potrebbero rispondere sostenendo che le vignette colpiscono quanto loro hanno di più sacro e prezioso per cui è assolutamente intollerabile che possano essere pubblicate.

Personalmente ritengo che l’idea che le credenze religiose dovrebbero ricevere una particolare protezione non dispone di argomenti convincenti. In una società libera, tutte le forme di credo dovrebbero essere aperte all’esame, alla critica, alla parodia e potenzialmente al ridicolo. In effetti alcune credenze paiono a tal punto ridicole che noi ci sentiremmo immorali ed offesi a doverle considerare in modo serio. Perché dovrebbe essere proibito dimostrare avversione per una religione? Perché non si dovrebbe poterlo fare se le credenze di quella religione o le attività svolte in suo nome meritano di essere disapprovate? Se certi insegnamenti o certe credenze religiose sono così antiquati, ipocriti e offensivi per i diritti umani non si vede per quali ragioni non si possa criticarli. Inoltre l’affermazione secondo la quale le autorità sono giustificate a far tacere chi esprime opinioni immorali coinvolge un rischioso assunto di infallibilità che può impedire il progresso umano. Mill cita i casi di Socrate messo a morte per presunta empietà. E Cristo, condannato alla pena capitale in Giudea per ciò che le autorità consideravano un insegnamento immorale. In ambedue i casi la presunta infallibilità dei giudici supera la prova del tempo. La storia ha giudicato Socrate e Gesù degni di essere ascoltati e le loro idee degne di essere discusse. Per la Libera Muratoria riconoscere la propria fallibilità è una condizione per poter affrontare seriamente qualsiasi questione.

Un diritto da difendere

Come ha scritto Noam Chomsky «Una delle lezione più chiare della storia, compresa la storia recente, è che nessun diritto è garantito; i diritti sono sempre conquistati». Come non essere d’accordo con tale affermazione quando anche nelle democrazie apparentemente più solide la libertà di parola è minacciata da organizzazioni criminali che portano a forme di autocensura per paura di eventuali rappresaglie? Posso capire che molti musulmani si siano sentiti ridicolizzati, offesi ed insultati dalle vignette di Charlie Hebdo, ma la causa di questo loro stato d’animo non è la libertà di parola; essa è solamente il veicolo del messaggio. Sembra piuttosto il loro modo particolare di percepire le vignette alla luce di un apparato culturale ideologico che le interpreta come blasfeme e meritevoli di vendetta l’origine della reazione violenta. Il problema non pare quindi la libertà di parola che invece rappresenta il presupposto per ogni democrazia che meriti questo nome. La questione concerne piuttosto il multiculturalismo. Per la Libera Muratoria la buona società è la società aperta, intesa come una società pluralistica fondata sulla tolleranza e sul riconoscimento del valore della diversità. Ma il Multiculturalismo, come ha più volte ribadito Giovanni Sartori, non persegue un’integrazione differenziata, ma una disintegrazione multietnica. La domanda che dobbiamo porci è allora la seguente: fino a che punto la società pluralista può accogliere senza disintegrarsi antagonisti culturali che la rifiutano? D:B. 

 

Alpina