La socievolezza nella Loggia
(Alpina 5/2013)
Nella Grande Encyclopédie si dice che la Massoneria è “un’istituzione filantropica che si sforza di realizzare un ideale di vita sociale”. Questo concetto viene ribadito all’interno dell’Ordine in svariati frangenti. In primo luogo attraverso un riferimento costante all’idea di Fratellanza, un legame profondo tra i propri affiliati che va oltre la semplice amicizia. Inoltre per mezzo di un insieme di simboli e allegorie che evocano abbastanza esplicitamente l’obiettivo di una vita sociale esemplare. Si pensi all’inequivocabile immagine della catena fraterna, alla promessa dell’iniziazione, a utensili come la cazzuola o alla costruzione del Tempio dell’umanità con i suoi cantieri che per funzionare efficacemente necessitano di una collaborazione ottimale tra i molti Liberi Muratori impegnati nell’impresa. Tutti questi simboli veicolano significati che concorrono ad instaurare relazioni di massima fiducia e affidabilità tra i membri delle varie Officine. Tenuto conto di queste premesse è evidente che personalità egoistiche, individualiste o asociali non sono in sintonia, anzi sono palesemente in contraddizione con i principi summenzionati. Il Massone è un uomo libero ma questo non vuol dire che esso possa anteporre i suoi particolari obiettivi ai fini supremi per i quali lavora la sua Loggia. Se i desideri personali di un Libero Muratore vengono ad urtarsi con quelli della Fratellanza, sono i primi a dover essere sacrificati, in caso contrario la Massoneria non potrebbe continuare ad esistere. Quando un Padrino si assume l’impegno della formazione di un Apprendista, esso si adopera affinché qualcuno venga educato alla conoscenza di principi, concetti e simboli indispensabili al suo addestramento. Ma il Padrino si preoccupa altresì che il discente riesca a mettere in pratica ciò che ha appreso. Ma soprattutto il Padrino deve vegliare attentamente affinché la sua azione riesca ad educare l’Apprendista ad essere qualcuno. In altri termini il sapere non è sufficiente. Oltre al sapere ci vuole un saper fare e, in ultima analisi, come coronamento di un’attività educativa un saper essere. Nel mondo profano l’insegnamento si limita spesso alla semplice trasmissione di nozioni e conoscenze; a volte persegue anche la capacità di mettere in pratica le teorie apprese. Molto raramente, tuttavia, ci si spinge fino al sommo obiettivo del saper essere. Eppure la completa maturità di un individuo viene raggiunta quando quest’ultimo ha imparato a far proprio un nobile stile di vita e quindi a smussare tratti caratteriali inutili o nocivi al perseguimento del bene comune e di una società migliore.
Daniele Bui
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