Valore e senso del nostro lavoro
(Alpina 12/2013)
Il concetto che Henry Ford aveva dell’operaio medio è
oggi ormai quasi completamente abbandonato e il lavoro
in serie della catena di montaggio è diventato il
simbolo del lavoro alienante e frustrante che nessuno
farebbe se avesse altre possibilità. Ma
dall’affermazione che il lavoro monotono è un supplizio
per qualsiasi essere umano non discende logicamente che
il lavoro “variato” sia necessariamente una
caratteristica sempre desiderabile. In effetti una
variazione troppo accentuata nel proprio lavoro è fonte
di stress, di costi energetici (fisici, mentali ed
emozionali) altissimi. Il tempo per la famiglia, gli
amici e lo svago si assottiglia notevolmente a causa del
bisogno di aggiornamento costante. Con un lavoro
soggetto a molteplici cambiamenti si aumentano le
difficoltà a strutturare e organizzare il tempo, a
stabilire dei contatti sociali gratificanti, a formarsi
un’identità e un ruolo sociale. Per molti imprenditori
dell’industria contemporanea la flessibilità favorirebbe
l’aumento dell’occupazione. In realtà, analisi oggettive
e rigorose del mondo del lavoro, mostrano eloquentemente
che la flessibilità diventa spesso un semplice sinonimo
di precarietà, un attacco generalizzato al diritto del
lavoro. Il suo quadro etico e normativo, anziché
considerarlo, come si dovrebbe, un’irrinunciabile
acquisizione della modernità, viene oggi interpretato
come un arcaismo, un retaggio del passato. La nuova
società che si sta rapidamente costituendo è composta da
un ristretto gruppo di privilegiati con un posto
stabile, ben retribuito, con buone prospettive di
carriera e di gratificazione personale e un altro
composto da lavoratori temporanei, precari, senza una
dimora lavorativa stabile, impiegati sulla base delle
fluttuazioni del mercato. Le conseguenze di un lavoro
intermittente, a chiamata non sono rilevabili solo
nell’immediato ma anche sul lungo periodo. I progetti di
vita rinviati potrebbero diventare irrealizzabili, le
esperienza di vita frammentarie faranno emergere un
curriculum eterogeneo, discontinuo e dunque poco
apprezzato. In poche parole i costi personali e sociali
della flessibilità minano la qualità di vita in modo
incisivo. Ebbene il nostro Ordine, da sempre mosso da
ideali di giustizia e fratellanza, ha secondo me il
dovere di stigmatizzare questi cambiamenti e di
arginarli, forse anche solo diffondendo quelle ricerche
scientifiche che mostrano che la flessibilità non solo
non contribuisce ad aumentare la libertà dell’individuo
ma altresì non sembra neppure potersi vantare di una
maggiore efficienza.
Daniele Bui
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