Tema

La morte: “Rito di iniziazione”

“Sai come arrivare là dove abita la luce?
Sai dove nascono le tenebre per ricondurle nei loro confini?
Sai distinguere il sentiero che porta al loro regno?
Certo che lo sai! Non sei nato ieri, ormai sei molto vecchio!”
Giobbe, 38/19,20,21

Fulvio Regazzoni, Loggia Il Dovere, Lugano

Una partita a scacchi con la morte

L’uomo, non appena si affaccia sulla soglia della vita inizia la sua partita a scacchi con la morte. La Signora con la falce muove i suoi pezzi con grande maestria. Così incomincia l’atavica sfida che si combatte sulla scacchiera cosmica; un immenso insieme di figure geometriche: quadrati e losanghe, a colori alternati, bianco e nero, che rappresentano le forze contrarie che si confrontano nella lotta per la vita, sia nella costituzione della persona, sia dell’universo. L’esito della partita è scontato: l’uomo subirà scacco matto.

Tutti noi abbiamo dato vita da tempo a questa sfida. La morte ci concede il privilegio della prima mossa. Il riverente terrore che le permettiamo di incuterci, ci vede irrimediabilmente perdenti ancor prima che la partita si concluda. La parola morte, la fonetica stessa di quel sostantivo, ci induce a prostrarci davanti a lei, ad arrenderci ancor prima che il suo alito ci abbia sfiorati. Il pensiero della morte ha il potere di annichilirci, di raggelarci. In quelle case dove la nera parca ha falciato il fieno i suoni sembrano attutiti, soffocati. Tutto è sommesso. L’olfatto percepisce l’odore acre del suo passaggio. Ai bimbi è vietato giocare, sorridere. Gli adulti hanno gli occhi infossati, arrossati dal pianto e dal dolore. Tutto è gelo, cambiano i sapori delle pietanze: al palato ricordano il profumo dei crisantemi, l’odore della terra fradicia appena smossa. Terra nera, che sa di dolciastro, ammucchiata ai lati di una fossa ancora vuota. Uno spazio angusto che presto sarà colmato. Anche i colori dei fiori più belli, in quei giorni, sembrano spenti. Il Sole non riscalda i cuori di coloro che la morte ha privato degli affetti più cari.

Vita e morte camminano fianco a fianco. Ci accompagnano, mano nella mano, sulla sottile linea del destino. Alla vita ci si affida con totale fiducia, certi della promessa del domani. Alla morte questa fiducia viene negata. Il suo “domani”, il dopo, è incerto. Siamo portati a considerare la promessa di una esistenza ultraterrena, da viversi in una dimensione spirituale, troppo labile per affidarci serenamente alla morte. Il “fiume” che ci apprestiamo ad attraversare è troppo impetuoso, l’altra sponda è nascosta dalle brume, l’ignoto ci terrorizza. Ma se avessimo la certezza che su quella sponda potremo proseguire nel nostro cammino, la morte non ci farebbe più paura.

Immagini della morte

Nell’iconografia, la morte, è stata rappresentata come figura implacabile, dall’aspetto diabolico, paralizzante. Nell’infanzia ebbi modo di farmene un’immagine ben connotata. L’avevo vista raffigurata in un affresco: uno scheletro che cavalcava con fierezza uno spettrale destriero nero. In una mano, la morte brandiva la falce, nell’altra una clessidra. Lo sguardo, seppur spento nelle vuote occhiaie, aveva una strana espressione: la mascella, semiaperta, scopriva una dentatura tormentata, giallastra. La morte sogghignava. Sullo sfondo, le torri in fiamme di un castello. Era passata seminando la disperazione. La stessa che provai quando si prese mio padre. La morte era entrata nel mio immaginario: un vento gelido, un sussurro che udivo nelle notti insonni, quando mi nascondevo sotto le coltri per non udire scalpitare quel cavallo nero.

La morte si manifestò ancora. Lo faceva continuamente. E il rito si ripeteva: la visita al defunto, le stesse lugubri atmosfere, gli stessi odori, lo stesso gelo che avvolgeva tutto e tutti.

Con l’adolescenza quella tetra immagine andò sbiadendo. A quell’età la morte non ci spaventava. Eppure non mancavano messi da falciare. Noi sognavamo la vita e il nostro domani era tinto a colori sgargianti. Quando la morte si manifestava, era un fatto che riguardava gli altri. A volte lo faceva in maniera plateale. Si abbatteva all’improvviso su uomini e cose. Ciò avveniva in paesi lontani. A volte la incrociavamo sulle strade, durante le nostre scorribande in automobile. Lei era già passata. Unica traccia: le lamiere contorte di una vettura accartocciata. Come in un messaggio subliminale, lei ci appariva per una frazione di secondo, forse a ricordarci che non si era certamente dimenticata di noi e che non ce lo dovevamo scordare.

Ma la linfa che scorreva come fuoco nelle nostre giovani vene aveva il sopravvento. Quell’ immagine si dissolveva. Ci si rifiutava di pensarci. Rifiutavamo il concetto stesso di morte, fine di tutte le cose. Ci sentivamo eterni, immuni, al riparo da quel possibile incontro.

Ci apprestavamo a far parte di una società che pronunzia la parola morte sottovoce, evitando il più possibile di parlarne.

La morte ci cammina a fianco e facciamo finta di ignorarla. Giornali, radio, televisione ci rammentano quotidianamente questa sua presenza. Da tempo immemorabile ci si batte per sconfiggerla. E’ una battaglia che combattiamo con le armi che ci vengono messe a disposizione dalla scienza, dalle nuove tecnologie. Curiamo in maniera quasi maniacale la nostra salute. Siamo costantemente alla ricerca dell’elisir di lunga vita.

Lo scopo è quello di rimandare il più tardi possibile l’incontro con la vecchia Signora, con l’intento di escluderlo in maniera definitiva, tanto ci terrorizza. E allora evitiamo di parlarne, partecipando solo marginalmente al lutto altrui. A volte, disertando le esequie, ci illudiamo di poter esorcizzare la morte. Meno se ne parla, meglio è. Un’improvvisa dipartita, un lutto che colpisce amici, conoscenti, è qualcosa che cerchiamo immediatamente di cancellare dalla nostra mente. In questa Società non c’è posto per la “cultura della Morte. Dice bene il Bianconi: “La civiltà della fretta, della tecnologia avanzata, del computer, teme la Morte in maniera incredibile. Paura per questo momento che tutti vogliamo il più lontano possibile c’è sempre stata, da Adamo in poi. Ma adesso c’è il terrore. Una volta, nemmeno troppi decenni fa, il tempo scandiva meglio il ritmo delle stagioni e anche la Morte era un’immagine meno spettrale. Oggi, guai! E’ subito incubo.

Si sta rapidamente allentando, dove pure non è già sparito del tutto, quel senso di compartecipazione, di solidarietà e condivisione che un tempo univa tutte le contrade colpite da un lutto, l’intero paese e anche una valle”.

Oggi si muore in maniera asettica. Il trapasso, sempre più spesso, avviene fuori dalle mura domestiche, a volte senza il conforto dei propri familiari. La morte è un’ospite che può renderci visita all’improvviso. Per questo le si chiede la più assoluta discrezione. A volte si muore senza che nessuno se ne accorga, nemmeno coloro che abitano alla porta accanto. Appena scoperto il decesso bisogna cancellarne ogni traccia, come se la morte fosse un fatto di cui vergognarsi, un esecrabile accadimento che bisogna nascondere ad ogni costo. Un fatto innaturale.

La morte è innaturale solo se la si considera la fine assoluta di tutte le cose, di ciò che è positivo, vivo: un essere umano, un animale, una pianta, una relazione, un periodo, un’epoca. Noi consideriamo la morte come il simbolo distruttore dell’esistenza. Sforziamoci di pensarla invece come vettore capace di proiettarci in un’altra dimensione, dove, abbandonato l’involucro corporale, lo spirito possa librarsi libero e vivere un’esistenza forse migliore di quella che ci siamo lasciati alle spalle. Dovremmo considerare la vita terrena come il preludio di un grande viaggio, una lunga navigazione che ci permetterà di uscire dalle dimensioni cosmiche, alla ricerca dell’immortalità, isola in un mare di luce.

“La Morte è detta la Regina del terrore” - così la definisce Dion Fortune nel suo saggio -“Attraverso i cancelli della Morte”-. “In essa – scrive l’autrice - consiste la punizione suprema con cui la legge punisce chi viola le sue regole. Cos’è dunque che rende un processo naturale così terribile? E’ forse la paura del dolore? No, non è questo, perché la scienza dispone di sostanze in grado di alleviare le nostre sofferenze. La maggior parte dei moribondi è serena nel momento del trapasso e solo pochi lo affrontano lottando. Cosa temiamo dunque nella morte perché essa sia per noi causa di dolore e paura?

In primo luogo temiamo l’Ignoto. Come seconda cosa paventiamo la separazione dalle persone che amiamo. 

La morte nella antiche civiltà

Se la nostra civiltà considera ancora la morte come un tabù, nel passato, l’approccio con essa era di tutt’altra natura. A testimonianza di ciò, i testi che ci sono stati tramandati: il Libro dei morti egiziano e quello tibetano. Il primo precede di oltre tremila anni il Bardo Thödol. (Bardo significa: “post morte” o “stato intermedio dopo la morte”. Thödol: “liberazione mediante lo studio, ascolto, meditazione”.

“Fra i popoli dell’antichità - scrive Gregorio Kolpaktchy - nessuno ha manifestato per il mistero della morte un interesse così appassionato e così esclusivo come il popolo egiziano. Assorto nella ricerca della soluzione di questo assillante quesito, fin dagli albori della sua civilizzazione, l’antico Egitto organizzò tutta la sua vita politica, sociale e religiosa in funzione di questo problema; possedendo una tradizione esoterica risalente ad epoca immemorabile e disponendo di numerosi e ben organizzati centri iniziatici, credette poter dominare la stessa morte”. Per l’antico egizio la morte non era l’ultima tappa, la fine del viaggio, ma bensì la continuazione dell’essere intelligente. La teogonia egizia ha fatto della morte il tema stesso della vita.

Il Libro tibetano dei morti ha origine dalle comunità buddiste grazie all’esperienza di alcuni Lama che in maniera diversa dagli Yogi indiani, hanno saputo plasmare la loro mente portandola ad uno stato di coscienza atto a sfatare, cancellandole, tutte le illusioni del post morte. Questo testo prepara i vivi al dopo morte, razionalizzandone il concetto. I tibetani definiscono “stati” di post morte anche altri momenti dell’uomo: la concezione, il sogno, e lo stato di profonda meditazione. “Dimmi quali sono i tuoi pensieri e ti dirò quali mostri, luci o tenebre vedrai e incontrerai nel post morte”. L’anima, dopo il passaggio, ritrova la somma di tutti i pensieri espressi durante la vita. “Secondo il Bardo Thödol, -scrive Guglielmo Marino, autore del volume “L’uomo muore perché è immortale”-, ogni immagine che il defunto incontra nel suo post morte è frutto di allucinazione della sua stessa mente, cioè un inganno della propria mente. L’allucinazione consiste nel fatto che il defunto, pur essendo già morto, persiste a credersi ancora in vita, non riuscendo a rendersi conto del suo trapasso in un altra dimensione”.

“La morte - sostengono i mistici- ha un valore psicologico: libera le forze oscure, negative e regressive, dematerializza e libera le forze ascensionali dello spirito. Se la Morte è figlia della notte e sorella del sonno, possiede - come sua madre e suo fratello - il potere di rigenerare”. Nell’Antico Egitto era profondamente radicata la convinzione che l’uomo, nascendo sulla Terra, moriva per il mondo dell’Aldilà. Le potenzialità sovrumane di cui era dotato, subivano una specie di battuta d’arresto. Per rigenerarsi era necessaria una nuova nascita, che poteva avvenire solo con la morte terrestre. Ciò equivaleva alla rinascita dello spirito, al ringiovanimento dell’Ego profondo. Il defunto diveniva allora un nuovo nato nella “piena Luce del Giorno”.

Per l’iniziato egiziano la morte fisica non era altro che la logica metamorfosi della coscienza. L’anima varcava la soglia e iniziava il cammino dell’evoluzione per penetrare nei Mondi dell’Aldilà.

Nel mito di Osiride gli egiziani vedevano il pegno di una vita eterna, aldilà della morte. Credevano che l’uomo sarebbe vissuto eternamente nell’altro mondo se i suoi cari avessero fatto per il suo cadavere quello che gli dèi avevano fatto per il cadavere di Osiride.

Noi, seppur inconsciamente, facciamo le stesse cose, con gli stessi intenti. Ricomponiamo i nostri morti. Celebriamo le esequie con un riguardo particolare, tenendo sempre ben presenti le abitudini, i gusti, le preferenze di coloro che ci hanno lasciati. Da qualche parte, anche se celata negli angoli più profondi del nostro subcosciente, non c’è forse la speranza che tutto ciò serva a facilitare “il passaggio”, a favorire la “metamorfosi” di quel corpo che stiamo per seppellire o affidare alle fiamme? E non ci siamo mai domandati, in quelle circostanze, se è mai possibile che tutto finisca lì, sotto qualche metro di terra o in una manciata di cenere?

Il “rito di iniziazione”

Per poterci rigenerare, dobbiamo compiere il “rito di iniziazione”. Con la morte ci si libera di tutto ciò che è terreno, comprese le pene e le preoccupazioni che la vita terrena comporta. Abbandonato questo stato di “imperfezione”, s’inizia un processo di rinnovamento, al quale possiamo accedere solo se iniziati. Dobbiamo permettere che la metamorfosi si compia. L’iniziazione consiste nella accettazione della morte come “rito di passaggio”. Dobbiamo abbandonare l’involucro (vita profana) per accedere ad una dimensione totale di Luce; dobbiamo levarci la benda. Facciamo nostre le parole di Wirth: “Il profano deve morire per rinascere alla vita superiore”

Nel suo racconto “Rivelazione magnetica”, E. A. Poe chiede al suo immaginario interlocutore, il signor Vankirk: “l’uomo potrà mai ripudiare il corpo ?”.

E Vankirk risponde: “vi sono due corpi: quello rudimentale e quello completo, corrispondenti alle due condizioni del bruco e della farfalla. Ciò che noi chiamiamo morte non è che la dolorosa metamorfosi. La nostra incarnazione presente è progressiva, preparatoria, temporanea. L’incarnazione futura è perfezionata, ultima, immortale. La vita ultima è lo scopo supremo.”

Questo passaggio tratto dai “Racconti straordinari” dello scrittore statunitense, ci porta di riflesso al simbolismo della crisalide, luogo per eccellenza delle trasformazioni. Ci torna quindi naturale accostarlo alla camera segreta, al gabinetto di riflessione da dove s’inizia la metamorfosi che dal buio ci porta alla Luce. La crisalide non è solamente l’involucro (il corpo) protettore, ma bensì uno stato transitorio fra due momenti del divenire. Essa comporta la rinunzia del passato (la materia) per la conquista di uno nuovo stato (lo spirito). La morte ha i suoi emissari: sono i simboli e i colori che la rappresentano. La falce, che appare nelle mani dello scheletro: strumento inesorabile che ci rende tutti uguali. La clessidra, che ci ricorda l’inesorabile trascorrere del tempo e che soprattutto non è eterno. Il colore nero, per noi occidentali segno inequivocabile di lutti e sciagure.

Nella XIII lama questi simboli e colori assumono tutt’altro aspetto e sono estremamente significativi, eloquenti: rappresentano la morte come passaggio obbligato per rinascere a nuova vita. In questo caso la morte va interpretata come “iniziatica”. Essa falcia il paesaggio di una realtà che è solo apparente, falsata. La lama della falce è rossa, il paesaggio è tinto di nero. Quindi la falce come forza vitale, la vittima il nulla. L’arcano XIII prepara alla vita reale.

Il nero e il rosso. Il primo, capace di assorbire tutte le radiazioni, non restituisce la luce. Evoca il caos, il cielo notturno, le tenebre terrestri della notte, il male, la tristezza le angosce, le paure, l’incoscienza, il nulla (realtà solo apparente).

Il rosso (la falce) è il colore del fuoco e del sangue e da molte civiltà e popoli è stato considerato il principio della vita. La morte iniziatica come prefigurazione della morte fisica, dev’essere intesa come rituale per accedere a una nuova vita. Citiamo San Paolo: (I Corinzi, Il corpo dei risorti 36, 37) “Nessun seme rivive se prima non muore. E il seme che metti in terra, quello di grano o di qualche altra pianta, è soltanto un seme nudo, non la pianta che nascerà. Dio gli darà poi la forma che vuole, e a ogni seme corrisponderà una pianta”.

Prima della morte reale, grazie alla morte iniziatica che San Paolo ci invita costantemente a ripetere, l’uomo costruisce il suo corpo glorioso penetrando – tramite la grazia e pur continuando a vivere nel mondo profano - nell’eternità. L’immortalità non segue la morte, non appartiene alla condizione post mortem, bensì si costruisce ed è il frutto della morte iniziatica.

Ancora dalla prima lettera ai Corinzi: (45, 46 e 50) “Così dice la Bibbia: il primo uomo è stato fatto creatura vivente, ma l’ultimo Adamo, Cristo, è stato fatto Spirito che dà vita. Ma non viene prima ciò che è spirituale, prima viene ciò che è materiale. Quel che è spirituale viene dopo. (....) Ecco, fratelli, quel che voglio dire: il nostro corpo fatto di carne e di sangue non può far parte del regno di Dio, e quel che muore non può partecipare all’immortalità”. Iconograficamente, la morte, è da sempre stata personificata da uno scheletro. In alchimia esso è il simbolo del nero, della decomposizione. Ma colore e degenerazione della materia sono il principio della trasmutazione. In questo caso lo scheletro non rappresenta più una morte statica, uno stato irreversibile, ma una morte che diventa strumento per una nuova vita. Una morte mistica, iniziatica che simbolizza la putrefazione della materia, passo obbligato per accedere alla rinascita. Quelle che vengono definite “religioni misteriche”, testimoniano di questa speranza, la rinascita. Ed infatti, i riti di iniziazione ai grandi misteri (Elèusi, Cibele, Mitra) erano, senza dubbio, simbolo di resurrezione di un ritorno alla vita attesa dagli iniziati.

“La Morte, così poetica perché mette capo alle cose immortali, così misteriosa a motivo del suo silenzio” (Collin de Plancy “Dizionario Infernale”)

Nel vasto repertorio del simbolismo, non mancano di certo segni che ci inducono a considerare la morte “poetica” e “iniziatrice” di una nuova esistenza. La spirale, ad esempio, che ritroviamo riprodotta in tutte le culture è uno dei simboli indicante il viaggio dell’anima dopo la morte. In America, in Asia e Polinesia, le civiltà primitive vedevano rappresentate nella spirale le varie fasi del viaggio che l’anima del defunto doveva compiere verso la destinazione finale. I Germani la rappresentavano circondante l’occhio di un cavallo attaccato al carro del Sole. Il significato non dovrebbe meravigliarci: la sorgente della Luce o se preferite - parafrasando E.A.Poe - “lo scopo supremo”.

Una costante, quella della Luce, che per noi Massoni dev’essere motivo di profonda riflessione. Se è vero che nella nostra simbologia la Luce ha un’importanza essenziale, proprio perché la identifichiamo con lo spirito, con l’intelletto, non dobbiamo dimenticarci che la Luce, per noi, significa anche rinascita, vita e salvezza. San Bonaventura (Bagnoregio Vt., 1274 Vescovo di Albano “Dott. Serafico”) definiva la Luce la “forma sostanziale di ogni corpo”. E S. Giovanni: “ Egli era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella Luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.”.

Un canto attribuito ad Amenofi IV, sposo di Nefertiti, recita così: “ Lodiamo il Signore Uno, padre della cosa Una e amiamo l’acqua che ci disseta e chiamiamo sorella la belva della notte, chiamiamo fratello il fuoco che distrugge e amica sorella Morte che ci riporta alla Luce del Signore padre della cosa Una”

Dopo la morte fisica

Possiamo sopravvivere alla morte fisica? Questa è la domanda che probabilmente assilla l’uomo da sempre, fin dalla preistoria. Da quanto lasciano supporre i riti di quelle popolazioni primitive, possiamo dedurre che la vita dopo la morte doveva essere interpretata come una continuazione, della vita terrena. Con le forme primitive di religione sono comparse le divinità dei morti “i guardiani dell’Aldilà”, ai quali era necessario versare un tributo, affinché il passaggio si svolgesse senza tribolazioni, sempre che il trapassato si dimostrasse meritevole di tanto riguardo. Ci troviamo evidentemente di fronte ad una prova di giudizio prima di affrontare un’altra esistenza. E in questo caso i confronti con altre civiltà, con altre religioni si sprecano: come non constatare l’universalità di questa speranza di “rinascita”, indipendentemente dal nostro credo, dalla nostra religione ?

Questa speranza si è sempre manifestata nella maggioranza degli esseri umani. La specie umana è portata a credere in un possibile Aldilà, dando per scontato che alcuni aspetti della personalità sopravvivano alla morte del corpo. In Oriente vige la convinzione che il nocciolo della personalità sopravviva alla morte del corpo, per poi ritornare su questo mondo. Entrando in un altro corpo, il nucleo da vita ad un processo di rinascita, di reincarnazione; musulmani e cristiani credono a forme diverse di esistenza extraterrena.

Contrariamente agli spiritualisti, i seguaci della filosofia materialistica negano che un qualunque aspetto della coscienza personale possa sopravvivere alla morte fisica. La loro tesi si basa sulla teoria che la mente sia soltanto una sorta di ombra dell’attività cerebrale. Secondo loro ogni attività mentale cesserebbe quando il cervello smette di esercitare la sua funzione. Quale cervello? Quello fisico-formale o quello eterico? C’è un dialogo, tratto dalla teoria platonica dell’immortalità, in cui vengono descritti gli ultimi istanti della vita di Socrate. “In questo dialogo scaturisce l’ideale platonico di un uomo – scrive Russell - che è insieme saggio e buono al più alto grado, e che non ha alcuna paura della morte”.

L’imperturbabilità di Socrate negli ultimi momenti della sua vita è indubbiamente legata alla sua fede nell’immortalità. E a proposito degli impedimenti del corpo, e delle conseguenze che a volte ne derivano, Socrate afferma: “Che cos’è la purificazione se non il separare l’anima dal corpo?”

Se l’uomo vivesse in simbiosi con la natura, se osservasse i miracoli quotidiani che essa sa produrre e se soprattutto si sentisse parte integrante di questo processo, i suoi dubbi sulla possibilità di una “rinascita” aldilà della morte fisica, potrebbero essere fugati.

Il seme che muore e si moltiplica, il suo simbolismo che prevarica i ritmi stessi della vegetazione, non sono forse un esempio dell’alternarsi dei ritmi di vita e di morte? I riti di iniziazione non hanno forse lo scopo di liberare l’anima da questa alternanza e di fissarla nella luce? Sofocle chiama tre volte beati coloro che in Elèusi hanno raggiunto e contemplato il télos lo scopo: “soltanto per loro - afferma - c’è vita nella morte”.

 

Alpina