Dossier
Architettura sacra ed estetica medievale
Nell’Antichità e nel Medioevo le materie di studio erano dette arti liberali perché ritenute
confacenti con la dignità dell’uomo libero, in contrapposizione con le artes serviles,
quelle meccaniche, che richiedono un’applicazione delle mani.
Le arti liberali erano sette: tre costituivano
il Trivio: grammatica,
retorica, dialettica. Le altre
facevano parte del Quadrivio: aritmetica,
geometria, musica, astronomia.
Nelle scuole medievali le arti del Trivio
rappresentavano l’indirizzo letterario
ed erano dette infatti anche artes
sermocinales (arti del parlare); quelle
del Quadrivio appartenevano al grado
scientifico dell’insegnamento ed erano
considerate perciò artes reales (arti
riguardanti la realtà): le une e le altre
erano propedeutiche allo studio della
filosofia e della teologia.
Il problema dell’architettura
sacra come arte meccanica
Ebbene l’architettura si rivelava un’attività
legata prevalentemente alla vita
attiva che non a quella contemplativa.
Da tale punto di vista veniva relegata
nel novero delle arti meccaniche o servili
perché evocava il tradizionale lavoro
degli schiavi, obbligati a servirsi delle
mani e di strumenti manuali nell’esercizio
delle proprie funzioni.
In tale contesto si capisce il problema di
fondo dell’architettura sacra. Essa era
un’arte meccanica, servile, subordinata
alle nobili arti liberali ma allo stesso
tempo era chiamata a svolgere un compito
sublime ed elevatissimo, cioè quello
di costruire la «casa del signore», «la
porta del cielo». Viene quindi affidata all’architettura, un’arte «plebea», il nobilissimo obiettivo
di edificare la dimora di Dio. Ma come poteva scaturire
da una base «ignobile», «volgare», la sublime ed eterea
emozione religiosa? Una prima risposta a questo paradosso
portava a vedere nelle forme architettoniche qualcosa che
trascende il mondo delle immagini e giustifica la funzione
dell’arte come guida dell’intelletto dalle elementari percezioni
alle verità divine. Pur essendo costituite da elementi
materiali, chiese e cattedrali procurano una gioia spirituale
che trasporta l’uomo dal mondo terreno a quello soprannaturale.
Inoltre Dio stesso è un virtuoso architetto
che costruisce il creato come un immenso edificio armonizzando
la varietà delle cose usando squadra e compasso.
Sottoponendosi alle regole della geometria, l’architetto
medievale avvertiva quindi l’emozione esaltante di imitare
l’opera del divino maestro.
Un’altra risposta per risolvere questa aporia si concretizzò
addobbando le chiese e le cattedrali di preziosi artefatti:
splendidi dipinti, affascinanti sculture, mosaici ed arazzi
magistralmente assemblati, ori scintillanti nonché perle,
diademi, quarzi e diamanti vennero sapientemente dislocati
per ornare in modo confacente il Tempio del popolo
dei fedeli e al medesimo tempo venivano offerti al culto
dell’Onnipotente.
La negazione moralistica del bello
Questa soluzione tuttavia apriva una questione spinosa
senza riuscire veramente a risolvere in modo convincente
il problema per il quale era stata concepita. In effetti mistici
e rigoristi si chiedevano se fosse lecito decorare sontuosamente
una chiesa quando i figli di Dio vivevano nell’indigenza.
Ma soprattutto temevano che in una chiesa che
rifulge di ogni sorta di bellezza il fedele sia più portato ad
ammirare il bello che non a venerare il sacro. La polemica
condotta dai cistercensi e dai certosini nel XII secolo contro
il lusso e l’impiego di mezzi figurativi nella decorazione
delle chiese è emblematica. Tali decorazioni distoglierebbero
i fedeli dalla concentrazione nella preghiera. Particolarmente
eloquente il seguente passaggio di San Bernardo
di Clairvaux che «per guadagnare Cristo ha stimato sterco
tutte le cose che splendono di bellezza»: «Non voglio parlare
delle altezze immense degli oratori, delle smisurate lunghezze,
delle ampiezze esagerate, delle pitture curiose che
attraggono e sviano l’occhio di colui che prega e ne trattengono
lo slancio di devozione (...) Gli occhi sono colpiti dalle reliquie coperte d’oro (...) Si espone l’immagine
bellissima di un santo o di una santa che
sono creduti tanto più santi quanto più i
colori della loro immagine sono vivi (...)
Cosa ci stanno a fare nei chiostri dove i fratelli
leggono e pregano quei mostri ridicoli,
quelle strane deformi bellezze, quelle
difformità affascinanti? Cosa ci stanno a
fare questi leoni feroci? questi mostruosi
centauri? (...) Si vedono molti corpi
sotto un’unica testa e al contrario molte
teste su un corpo solo, animali a quattro
zampe con coda di serpente e bestie mezze
capra e mezze cavallo (...) Dappertutto
appare una così grande e strana varietà di
forme che si può passare un intero giorno
ad ammirare queste stranezze invece
di dedicarsi alla meditazione religiosa»
(Apologia ad Guillelmum abbatem).
La geometria: l’arte liberale a
fondamento dell’architettura
Queste ultime considerazioni ci suggeriscono
e ci ricordano, per risolvere il
primo dilemma, alcune osservazioni di
Sant’Agostino che sembrano indicare
chiaramente una possibile via di uscita.
Per l’autore delle Confessioni l’architettura
si fonda su rapporti numerici e
quindi – nonostante la gerarchia epistemologica
tra le due discipline – esse
risultano entrambe sorelle perché generate
dal numero ed entrambe specchio
della divina armonia. Quanto al
paradosso evidenziato da Bernardo un
possibile argomento a difesa di chiese
sontuose e cariche di ogni sorta di suppellettili
è possibile trovarlo nell’universo
simbolico ed allegorico di tali oggetti.
Essi diventano l’alfabeto per educare
i semplici attraverso il diletto della figura
e dell’allegoria. Il simbolismo e
l’allegoria trasformano rispettivamente
l’idea ed il concetto in un’immagine.
Il linguaggio figurato, come diceva già
Goethe, permette quindi all’artista di
cercare nel particolare l’universale o,
nel caso dell’allegoria, il particolare in
funzione dell’universale. D.B.
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